Dopo aver condannato per decenni milioni di persone nel mondo a sviluppare l’AIDS pur di non sollevare le patenti dei farmaci antiretrovirali, Big Pharma ancora una volta sta dando priorità ai profitti invece che alle vite umane. Questa volta lo fa rifiutando di condividere la tecnologia e i brevetti dei vaccini del Covid con i paesi che, ai prezzi attuali, non possono permettersi di pagarli. La People's Vaccine Alliance ha lavorato instancabilmente per far luce sulla disuguaglianza che caratterizza l’attuale accesso ai vaccini, un vero e proprio apartheid vaccinale, ma l'industria farmaceutica sta reagendo duramente, dedicando ingenti risorse per neutralizzare gli sforzi comunicativi delle associazioni e della società civile, diffondendo disinformazione nei media mainstream, spostando il dibattito sulla logistica, mentendo sugli ingenti finanziamenti pubblici ricevuti, minimizzando gli effetti che i ritardi nelle vaccinazioni hanno sulla nascita di nuove varianti. È il momento di far sapere a queste aziende che il loro piano non funzionerà, di metterci la faccia, anzi gli occhi, e riempire i nostri feed, muri, e piattaforme social della nostra indignazione. Oggi, e per tutta la settimana, partecipare all’azione #EyesOnPharmaGreed è molto semplice: noi Conigli Bianchi, assieme alla People's Vaccine Alliance, ti chiediamo di pubblicare un selfie, una foto con un primo piano dei tuoi occhi, su Twitter, Facebook, Instagram o LinkedIn utilizzando l'hashtag #EyesOnPharmaGreed, (*occhi puntati sull’ingordigia delle case farmaceutiche) a simboleggiare l’importanza di tenere gli occhi aperti sull'avidità farmaceutica, incoraggiando altr* a fare lo stesso, riportando l'attenzione e il dibattito pubblico sul fronte più cruciale della battaglia contro la pandemia, e proprio in occasione della visita di Angela Merkel negli Stati Uniti il 15 luglio. Se vuoi puoi includere nel tuo tweet i motivi personali per cui ritieni importante che questa incontrollata avidità debba finire. Qui un esempio di tweet che puoi adattare, o copiare e incollare e utilizzare così com'è: Ho miei occhi sulla vostra avidità, #EyesOnPharmaGreed, e chiedo la fine del #VaccineApartheid @Pfizer @BioNTech_Group @Moderna @AstraZeneca @JNJNews condividete la tecnologia e i know-how per garantire che tuttə, ovunque, siano al sicuro dal #COVID19. #PeoplesVaccine #NoProfitOnPandemic La coalizione #PeoplesVaccine sta anche cercando con urgentemente storie di persone che sono state (o che hanno persone care che sono state) colpite dall'avidità delle case farmaceutiche. Queste storie non hanno bisogno di essere legate al COVID, ma possono essere altrettanto emblematiche se testimonieranno in prima persona come si è lottato per accedere, o permettersi, farmaci per il diabete, l'HIV, il cancro, l’epatite, terapie ormonali, ecc. ecc. Se tu, o qualcuno che conosci, fosse dispost* a condividere la propria storia (in un tweet, in un breve paragrafo con una foto, in un breve video o in una qualunque altra forma) può inviarlo via email a take.action@peoplesvaccine.org Grazie mille per supportare questa azione, insieme possiamo fare la differenza! Conigli Bianchi con #PeoplesVaccine PS: Se sei un* cittadin* dell’Unione Europea e non lo hai già fatto, è ancora aperta la raccolta firme dell’iniziativa dei cittadini europei #NoProfitOnPandemic per chiedere che la Commissione europea faccia tutto quanto in suo potere per rendere i vaccini e le cure anti-pandemiche un bene pubblico globale, accessibile gratuitamente a tutt*.
Abbiamo ancora poco tempo per raccogliere un milione di firme. Si può firmare, far firmare e trovare tutte le informazioni su: noprofitonpandemic.eu/it/
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![]() Sabato 3 Luglio Plus Roma annuncia un flashmob per il 40° anniversario dell’HIV. La nostra leprotta bisestile ha raggiunto la counselor Angela Infante e l’attivista Filippo Leserri, che hanno ideato e organizzato con Plus Roma l’iniziativa. Grazie di aver accettato l’invito per questo tè all’orgoglio e zenzero. Come mai proprio questa data e quale messaggio portate in piazza? Filippo: Il 3 Luglio 1981 il New York Times pubblicò quel primo articolo dal titolo “Scoperto raro caso di cancro in 41 omosessuali”. Allora ovviamente non si parlava né di AIDS né di HIV, termini coniati rispettivamente nell’82 e nell’86, ma si parlava già di maschi gay. Un’associazione che è rimasta impressa nell’immaginario generale fino a oggi. Celebrare questa ricorrenza 40 anni dopo riporta l’attenzione su una delle epidemie più lunghe della storia, e su un virus che resta ancora attivissimo. Grazie alle terapie abbiamo reso gestibile l’infezione e conquistato lunghe prospettive di vita per chi vive con HIV, ma non è stato facile, e, sopratutto, non tutti viviamo in paesi in cui l’accesso a queste terapie è garantito. Con quest’azione ricordiamo che sono morte 38 milioni di persone, ma anche che di AIDS ancora si muore. Si muore perché si nasce nella nazione sbagliata, oppure perché ci si rifiuta di assumere le terapie o si scopre troppo tardi di averne bisogno. Torniamo in piazza inoltre per ricordare che noi persone sieropositive esistiamo, e abbiamo diritto alla salute come chiunque. Lo abbiamo acquisito grazie ad anni di lotte e denunciamo quanto negli ultimi anni la tutela di questo diritto si sia preoccupantemente ammorbidita. La pandemia da Covid19 dovrebbe averci ricordato quanto sia importante custodirlo attivamente e non darlo per scontato. Angela: Condivido ciò che ha detto Filippo, penso però al 3 luglio come a una vera e propria “commemorazione”. Volevo ricordare tutte quelle persone che dal 1981 sono cadute vittime dell’AIDS, ma anche di stigma e pregiudizio. Queste persone che abbiamo perso appartenevano a una comunità che si stava ancora definendo: abbiamo perso amici, amanti, compagni, ballerini, coreografi, musicisti, scrittori, personalità di ogni tipo e persone comuni. Un’intera generazione. E nella mia mente era proprio quella che sarebbe riuscita a fare la differenza, a cambiare il mondo. Mi chiedo spesso, ad esempio, se il movimento senza questa epidemia sarebbe andato in un’altra direzione, se non avremmo intrapreso strade illuminate da più cultura, più lettura, più arte, più conoscenza, più consapevolezza. È per questo che ho pensato che rendere onore al 3 luglio fosse doveroso. Nel 2021 non potevamo accontentarci di accendere i riflettori solo il 1°dicembre. Sarebbe bello se da questo momento in poi si continuasse a celebrare questa data. Il 3 luglio di 40 anni fa alcuni giornalisti suggerivano che un raro cancro potesse essere in qualche modo “gay” sottintendendo che una patologia potesse riguardare un orientamento piuttosto che un altro. È importante rifletterci, ci dice da dove siamo partiti e quanta strada abbiamo percorso. Aggiungo poi che “commemorare” non deve essere per forza un gesto triste. Un gesto politico forse, come tutto quello che facciamo d’altronde, ma per me sarà principalmente un gesto vitale. Vorrei ricordare la bellezza di queste persone che hanno fatto parte della nostra vita. Tengo anche nel cassetto da tanto l’idea di uno spettacolo e un progetto artistico che prova a immaginare come sarebbe cambiata la mia vita se quella "certa persona" fosse ancora con me oggi… ma meglio passare a un’altra domanda, che sennò mi commuovo. Ti ringrazio e te la servo subito Angela. Era mai stato festeggiato il 3 luglio in Italia? Angela: Non mi risulta. Qualcosa sui 30 anni dell’HIV forse. I decennali dell’HIV sono sentiti più che altro negli Stati Uniti, ma io questa idea negli scorsi mesi l’ho disseminata comunque. Forse il Milano Check Point continuerà a svilupparla anche dopo l’estate come anniversario importante per la comunità, e Plus Roma l’ha accolta subito con entusiasmo. Ne sono onorata, e Giulio Maria Corbelli, Fabio Bo, Filippo e tutto il gruppo sono stati molto ospitali. Filippo: Avevamo anche alle spalle l’azione del 1°Dicembre 2020, #HIVISIBLE-together, molto partecipata nonostante pioggia e restrizioni Covid, e ciò ci ha incoraggiato a prendere nuovamente e pubblicamente parola. Scendere in piazza è importante, su questo tema lo si fa sempre meno, ma invece è un modo per dare un volto a qualcosa e qualcuno. Ed è proprio questo che serve per superare lo stigma. Alcune associazioni hanno fatto cadere la ricorrenza dei 40 anni il 5 giugno, riferendosi al giorno in cui la notizia uscì sul MMWR [Morbidity and Mortality Weekly Report, il bollettino del Centers for Disease Control di Atlanta]. In effetti è quella la pubblicazione che riprende il NYT pochi giorni dopo. C’è un motivo per cui avete scelto di ricordare l’uscita sul NYT e non quella su una pubblicazione scientifica? Angela: Posso dire, nonostante io lavori in un policlinico, che siamo stanchi di ridurre l’HIV a una questione solo medica? Superando la monumentale riconoscenza nei confronti della medicina, che per carità, i medici a tutti gli effetti, ti salvano la vita, possiamo dirci che, sopratutto in Italia, rispetto all’implementazione PrEP e diffusione capillare del messaggio di U=U, i medici si sono mossi con inaspettato ritardo? O che è difficile dimenticarsi che mentre la gente moriva Montagnier e Gallo discutevano su chi avesse scoperto il virus? Possiamo anzi ricordarci di come molti passi in avanti su questo fronte si sono fatti grazie a una pressione politica continua, a volte disperata, da parte della società civile? D’altra parte non mi pare di aver visto fiumi di fiocchetti rossi in corsia il 5 giugno. Mi sarò distratta. ll New York Times presentò l’AIDS al mondo intero. Lo fece male, ma lo spartiacque culturale che segna "un prima e un dopo" è quello. Filippo: E poi quell’articolo del NYT se lo ricordano tutti. Angela: Tutti. E tutte. Per chi è sopravvissuto all’epidemia quell’articolo è un ricordo indelebile. Dopodiché l’AIDS circolava da anni, non ha mietuto le sue prime vittime nel 1981. Pare circolasse almeno dal 1969. E di contro per molti l’AIDS non è esistito finché non ha avuto un impatto diretto sulle loro vite, cosa che magari è successa negli anni ’90, o nei 2000, o forse domani. Interessante sarebbe chiedersi perché ci è voluto così tanto per accendere un’attenzione medica su questo e chi erano le persone che morivano ricevendo diagnosi erronee. Restando quindi nell’ambito del simbolico, questa data è importante per il suo portato culturale. Come si svolgerà la giornata del 3 luglio? Dove e in che forma è possibile partecipare? Filippo: Per il flashmob, diamo appuntamento a tutt* sabato 3 luglio alle 18:30 a Piazza Dell’Esquilino, alle spalle di Santa Maria Maggiore, a pochi metri dalla Stazione Termini! L’azione sarà performata da 41 persone che indosseranno maglie rosse con su stampato ciascun anno di questi 40 anni di epidemia. Abbiamo chiesto anche a chiunque altr* sentirà il piacere di raggiungerci di indossare il colore rosso, perché ci piacerebbe inondare tutta la piazza di questo colore, che rimane rappresentativo della lotta allo stigma e delle battaglie di prevenzione all’AIDS di questi 40 anni, e che per questo ormai io associo a un sentimento di comunità e speranza. Angela: L’idea è poi di mostrare quella prima pagina del New York Times, e presentare all’interno di questo simbolico giornale alcuni messaggi chiave che abbiamo scelto collettivamente, ma che non voglio anticipare. Sarà un flashmob molto veloce e stiamo ancora valutando alcune opzioni emotivamente un pò toste. Vedremo cosa ci sentiamo. Rispetto al colore aggiungo che il rosso è da sempre il colore del sangue, del pericolo, ma anche quello della passione, quella che noi come comunità sierocoinvolta abbiamo messo nell’occuparci di questa pandemia e che non deve passare inosservata. Quindi sarà anche il rosso del pathos, della lotta. Filippo: Invitiamo tutti e tutte a indossare una maglietta rossa proprio perché ci teniamo a rappresentarci come una comunità coesa. Forti della storia che abbiamo alle spalle, mi piacerebbe che tutte le persone che si uniscono alla piazza, a prescindere dal loro stato sierologico, non avessero nessun problema a dirsi “sieropositivə” per un giorno. Stiamo lavorando sulla visibilità delle persone sieropositive, che sappiamo non si potrà mai raggiungere senza l’aiuto di una collettività, di chi positiv* non lo è, ma ci è comunque vicino e solidale. Questa piazza in questo senso può trascendere il simbolico e rappresentare un aiuto concreto per tutte le persone che vivono con HIV. Mi sembra di capire quindi che alcuni dei messaggi che contraddistinguono questa giornata sono il reclamare la visibilità “fieropositiva” delle persone che vivono con HIV e l’essere tutt* sierocoinvolt*. Ci tenete ad anticiparne altri, per tutte le persone che verranno in piazza questo sabato pomeriggio? Filippo: Standomi molto a cuore il tema della PrEP, il mio preferito è sicuramente “Liberi di godere”. Non solo perché la PrEP è un dispositivo efficacissimo per limitare la diffusione del virus, ma perché rimette al centro di tutta la mia comunità il tema del piacere e della libertà sessuale. Il piacere per me è un diritto umano. Quanto in un contesto di omofobia e sierofobia siamo come comunità in grado di riappropriarci del piacere oggi? È un tema su cui dovremmo interrogarci, non solo dal punto di vista della salute fisica, ma di quella mentale, della qualità della vita stessa. Angela: Un messaggio che è quasi un grido di esasperazione per me è “Famose ‘sto test”, perché ancora nel 2021 viviamo in questo psicodramma da test HIV. “lo faccio”, “Non lo faccio”, “Preferisco non sapere”, “Ne faccio 4 diversi in diverse strutture”- Basta! Questa impasse generalizzata sul test, che non riesce a normalizzarsi come banale prassi di routine, è il risultato delle pessime, o inesistenti, campagne ministeriali di prevenzioni fatte in questi anni. “Famose ‘sto test”, letto proprio con questo tono esausto che senti adesso nella mia voce, lo dovremmo scrivere sui muri di tutte le scuole italiane di ogni ordine e grado. E speriamo di farlo. Anzi: facciamolo! Un altro messaggio a cui tengo molto è sicuramente "U=U”, perché ci permette di educare chi ancora non sa che chiunque viva con HIV ed è in terapia efficace oggi ha lo 0% di possibilità di trasmettere l’infezione. Certo stigma e diffidenza non si superano col nozionismo ma attraverso processi emotivi e culturali, però che il rischio fosse dello 0% spaccato prima non lo potevi dire. Oggi sì. Questo fa una grande differenza. Il terzo messaggio che mi emoziona è lo stesso di Filippo, “Liberi di Godere”. Angela: Posso aggiungere anche due intenzioni che mi porterò in piazza sabato e che la serie “It’s a sin” di Russell T. Davies spiega benissimo? Invito a vederla chi non l'avesse fatto. Il primo momento che mi risuona ancora in testa è il dialogo della protagonista femminile con la madre dell’amico del cuore, dove si sfata il mito della madre che è per definizione sempre e solo mossa dall’amore. Di mamme ce ne sono tante tipi, e diciamocelo, non tutte hanno sempre gli strumenti necessari a evolversi culturalmente e a diventare davvero buone madri. Chi appartiene alla comunità LGBTQIA+ questo lo sa bene, ma la storia stessa dell’AIDS ce lo conferma: oltre alle famiglie in cui si nasce esistono anche quelle che si costruiscono al di fuori dei legami di sangue. E queste meritano di essere celebrate. Un’altro sentimento che porterò al flashmob è evocato nella serie quando il protagonista, che continua a parlarle nonostante lei palesemente non lo capisca, dice alla madre: “Sai cosa mi dispiace? Che alla fine di tutta questa storia le persone si ricorderanno i morti. Invece io mi voglio ricordare tutti gli uomini che mi sono scopato, e che mi sono scopato con grande, grandissimo sentimento”. Dovremmo davvero ridefinire cosa intendiamo per “responsabilità” quando parliamo di HIV. Per me significa “rispondere abilmente a una situazione”, quindi: a volte si risponde abilmente indossando il preservativo, perché ce lo si porta dietro e ci va, e altre, con la medesima abilità, non lo si indossa, per qualunque sia il motivo per cui non lo si mette, ma ci si assume la responsabilità di quello che viene dopo. Se lavorassimo stressandolo di più questo fronte supereremmo tanti giudizi verso noi stessi. Per carità, ci vuole tempo, il coming out sierologico è un coming out complesso e nessuno lo nega. Però è pure vero che in Italia siamo lenti. Un lavoro enorme in questo senso lo potrebbero fare tutte le associazioni. Dovremmo ricominciare a vedere i film assieme, guardare le serie, parlare di libri assieme, ci credo molto. Altrimenti ripartiamo ogni volta da capo. A proposito di fare cose assieme. Quest’evento chiude praticamente il mese del Pride. A 40 anni dall’arrivo dell’AIDS, in che rapporti sono oggi comunità LGBTQIA+ e HIV? Immagino che i rapporti in questi 40 anni abbiano subito evoluzioni, a che punto siamo? Filippo: Allora parto da un dato statistico: la comunità gay, anzi meglio, la popolazione MSM (maschi che fanno sessi con maschi, che comprende come sappiamo non solo persone omosessuali, ma anche bisessuali, transessuali, questioning, etc.etc.) è tuttora quella più interessata a livello epidemiologico. Strumenti come PrEP o le terapie che portano a U=U possono aprire oggi una riflessione sul fatto che 30 anni di prevenzione schiacciata su un unico presidio, il profilattico, sono stati una piccola bugia. Tolti i giudizi morali e le buone intenzioni, attraverso i dati abbiamo visto che le persone hanno continuato a non usarlo ‘sto benedetto profilattico. Le scelte sul safer sex e sui comportamenti sessuali le conosciamo ormai. Oggi abbiamo quindi l’occasione di recuperare, come comunità LGBTQIA+ una riflessione generale aggiornata su HIV & AIDS. All’arrivo delle terapie la mia comunità aveva tacitamente deciso, anche comprensibilmente, di prendere le distanze dal tema, perché per troppo tempo ci si era portati questo stigma collettivo, quell’etichetta che lo raccontava come solo nostro. Oggi tutto questo si può rilanciare, e sovvertire. Potremmo ricucire il legame tra HIV e comunità, senza avere più paura di essere etichettati, ma affrontando finalmente, pienamente, la questione delle persone che vivono con HIV, della loro visibilità, della loro dignità. Anche semplicemente il fatto di poter scendere in piazza, con tutte le persone con HIV, sarebbe dimostrazione da parte della comunità di comprendere il dolore che si prova ad essere discriminat*, la vergogna, il senso di colpa che si prova ancora oggi nel dire “io sono sieropositiv*”. Questo è un momento storico delicato. Come Plus Roma, siamo stati orgogliosi di sfilare al Roma Pride come persone LGBTQIA+ con HIV. Nel nostro striscione, “Insieme blocchiamo l’HIV” la parole chiave per me era proprio insieme. Sarebbe bello quindi, considerato anche quanto la storia dell’attivismo ci lega indissolubilmente, che le prossime manifestazioni di piazza in cui si parlerà di noi venissero sentite come proprie e come un impegno da tutta la comunità. In fondo stiamo lottando contro lo stesso stigma. Angela: Ti racconto quello che mi è successo di recente in una scuola superiore. Domando alla classe: “Se un maschio etero si contagia con l’HIV, che valore date a questo evento? Cambia la vostra idea di quella persona?”. Risposta iniziale della classe “Mmm, no dai. Sono cose che capitano nella vita”. Bene. Dopo domando “E se è una donna eterosessuale che viene in contatto con l’HIV?” e mi rispondono “Poverina” (e già le mie coronarie stavano sul lungotevere). Allora chiedo “E se delle persone con una tossicodipendenza si scoprono HIV positive?” e loro abbastanza compatti rispondono “Poverini pure loro, sono presi dal sistema della droga” (soprassediamo sul fatto che nel 2021 ancora ci si possa permettere di non sapere cosa ti fa l’eroina). Alla fine domando “E se un uomo gay si scopre HIV positivo?” plebiscito generale: “Eh vabbè, così te lo sei andato a cercare!”. Ecco. Ragazzi e ragazze di 16 anni. Questo è un esempio semplice, e potevo farne altri mille, ma ti racconta come la situazione culturale e di percezione generale ad oggi non sia cambiata. E mi dispiace molto doverlo dire. Siamo ancora in un paese in cui l’HIV viene percepito da troppe persone come un problema a carico della comunità gay. Abbiamo fatto passi in avanti? Non lo so, forse troppo pochi. A Roma per dire abbiamo dovuto aspettare la giunta Raggi per vedere uno Stop Aids proiettato sulla piramide Cestia. E gli altri sindaci? Possibile che nessuno si sia degnato di ragionare su questo tema prima? Dobbiamo pretendere una migliore informazione, campagne di comunicazione in grado di trasformare l’HIV in un tema comune, quotidiano, maneggiabile. Questo non sta succedendo. Se poi pensiamo che la metà della popolazione LGBTQIA+ è pregiudizievole nei confronti di se stessa, hai fatto la frittata. Questionari in cui i membri della nostra comunità ti scrivono “Se io faccio sesso con una persona sieropositiva questa me lo DEVE dire” e due righe sotto “Se io fossi sieropositivo però non lo direi MAI ”. A volte sembra di stare in un loop. Filippo: Se oggi ancora tante persone omosessuali hanno un problema a parlarne apertamente, penso sia perché a frenarli c'è quasi sempre uno schiacciante senso di colpa. È un segnale che la comunità LGBTQIA+ non è ancora cresciuta, e non riesce a fare i conti con la propria omofobia interiorizzata. Angela: Ci siamo. Filippo: Troppi pensano “io sono diverso”, “faccio sesso sbagliato, quindi mi espongo a un rischio”, “me lo sono cercato”, “è colpa mia”, certi sentire sono ancora troppo forti all’interno della comunità. Ed è un sentire che pregiudica poi i percorsi di cura di sé e i comportamenti legati al safer sex. Se questo è ancora così forte tra le persone sieropositive gay, vuol dire che qualcosa non sta funzionando, non c’è stata crescita. Angela: E su questo punto, in quanto counselor di persone sieropositive, confermo che gli eterosessuali non hanno questo senso di colpa. Ce l’hanno magari rispetto all’essersi informati male, o perché son capitati in quel dato giorno in quella data situazione, però non c’è questa flagellazione generalizzata. Il senso di colpa che viene dall’omofobia interiorizzata lo riconosci subito, ed è difficilissimo lavorarci. Se gli infettivologi avessero la capacità di lavorare anche su questo piano, o ne fossero coscienti fino in fondo visto il gran parlare che si fa di benessere psicologico, minority stress e aderenza alla terapie, forse si potrebbe fare una piccola rivoluzione. Basterebbe fare ovunque quello che alcuni professori illuminati già fanno, ad esempio l'unità operativa dove lavoro forma gli specializzandi e organizza corsi di counseling, o aggiornamenti sul Chemsex, sui comportamenti sociali, etc. Questo libererebbe di pregiudizi e magari metterebbe a valore l’esperienza delle associazioni. Servirebbe un intervento istituzionale, ma siamo ancora in mano alla lungimiranza dei singoli presidi clinici. D'altronde, se le reazioni a una diagnosi oggi sono identiche a quelle che avevamo 15 anni fa, vuol dire che siamo fermi. E lo dico da ottimista. E questo mi sembra non contraddica il lavoro culturale e di servizio che sia Plus che tu Angela state facendo rispetto al fenomeno del Chemsex. Rispetto a donne e HIV invece com’è la situazione oggi secondo te? C’è stata un’evoluzione rispetto a quella invisibilità che partiva dai trial medici fino alla sotto-rappresentazione sui media? Angela: La situazione delle donne è complessa, in particolare quella delle donne lesbiche. Evocando di nuovo la cinematografia, se dai un’occhiata ad esempio al famoso “When We Rise”, dove c’è una forte componente femminile, si parla della nascita del movimento lesbico, della case delle donne, dei movimenti separatisti femministi, etc, un’idea un pò di quegli anni te la fai. E scopri che anche in certi ambienti rispetto all’HIV si è avuto un atteggiamento molto giudicante. In vita mia la frase “Cosa vuoi aspettarti da maschi che fanno sesso in continuazione e si drogano” l’ho sentita tante volte, spesso in contesti che non ti aspetteresti. A parte questa tendenza, che non mi sembra serio quantificare, è importante dire che le donne sono state anche ottime alleate, tanto le lesbiche come le eterosessuali, tanto le donne trans* come quelle cis, milioni di donne che hanno aiutato milioni di amici a morire in maniera dignitosa. Occupandosene, ma non in quanto donne, perché tanti uomini hanno fatto ovviamente altrettanto, ma in quanto sorelle, amiche, “compagne” nell’accezione più fluida si possa immaginare. Non sto confermando che la professione di cura sia una professione femminile, ma piuttosto che è la professione di chiunque è predisposto alla cura e all’accoglienza dell’altro. Un lavoro emblematico fu quello delle Blood Sisters ad esempio, che crearono un movimento lesbico per la raccolta del sangue in un momento in cui ce n’era un bisogno disperato. O le lotte di ACT UP per inserire nelle sperimentazioni sui farmaci anche le donne che venivano escluse, e che, nonostante si contagiassero in percentuali minori, comunque si contagiavano e ammalavano. Celebre lo slogan “Le donne non prendono l’AIDS. Ne muoiono e basta”. Poi sì, si è svolto innegabilmente un ruolo importante in termini di coesione delle comunità, un lavoro di lotta e di cura, ma non di cura nel senso “to cure” bensì nel senso di “to care”. Eravamo una comunità molto unita. E certo, una donna in quegli anni ha avuto la probabilità di perdere più amici di quanto magari un uomo avesse probabilità di perdere amiche, ma oggi queste generalizzazioni è urgente superarle. Anche perché le donne, tutte le donne, lesbiche, etero, bi, trans*, continuano a essere meno visibili rispetto a questo tema. E quando visibili si rendono, nell’immaginario comune, sono automaticamente ex tossicodipendenti o passive vittime di uno stronzo che le ha infettate. Arriviamo sempre là. E la realtà ovviamente è molto più complessa di così. Oggi ci troviamo a dare diagnosi a ragazze giovanissime, ci troviamo davanti una serie di sfide culturali, legate all'accesso ai servizi, alla ricerca, ai presidi di prevenzione, che esigono evidentemente che la donna occupi più spazio nell’arena dell’HIV. Filippo, un’ultima domanda sul nuovo Check Point di Roma. Cosa cambia da ora in poi in città sul piano della prevenzione? Filippo: Ci terrei a mantenere distinti i piani. I volontari di Plus pur essendo impegnati nell’offerta di una serie di servizi, prima a Bologna e poi a Roma, non hanno mai voluto rinunciare a un lavoro anche politico e sull’immaginario. Detto ciò l’importanza del test credo ce l’abbia confermato anche la pandemia da Covid19: il test è l’unico strumento che ci permette di combattere la diffusione di un virus. Ne consegue che un accesso facilitato al test, gratuito, anonimo, fatto non necessariamente in un ambiente ospedaliero, magari accompagnato da una chiaccherata di 20 minuti, è molto importante. È per questo che nasce il modello Check Point, che finalmente è arrivato anche nella capitale, e che noi di Plus Roma abbiamo avuto l’onore e il piacere di ricevere in gestione. Sarà uno spazio che coinvolgerà tutte le associazioni che si occupano di HIV, e offrirà come servizio principale test rapidi e gratuiti, non solo per HIV ma per tutte le infezioni a trasmissione sessuali (o di gran parte diciamo, sappiamo che l’HPV è purtroppo capitolo a parte). Speriamo di riuscire anche ad aprire quanto prima uno sportello PrEP, ci teniamo moltissimo. Detto ciò il Check Point è anche un luogo dove si destruttura lo stigma, dove le persone possono parlare e confrontarsi liberamente, fuori da un contesto delicato come è quello dell’ospedale, e non interfacciandosi a personale medico o psicologi, ma a persone alla pari, persona preparate ma con il quale si instaura una relazione orizzontale, non giudicante e fatta prima di tutto di ascolto. Angela: Aggiungo, da persona che ama molto PLUS, ha seguito i loro corsi, con loro si è formata, e molto di quello che ha imparato l’ha imparato grazie a loro, che mi piacerebbe che Plus valutasse anche ulteriori approcci all’HIV. Per esempio Plus organizza questi venerdì positivi dedicati alle persone sieropositive, che lì trovano uno spazio di confronto sicuro e necessario. Se volessimo ragionare sul “sierocoinvolgimento”, penso sarebbe importante a un certo punto aprire anche a compagne o compagni di persone sieropositive o a chi sta incominciando una relazione con chi vive con HIV e magari non ha le idee chiare. Lo facevo con il progetto HAARTisticamente e nei miei laboratori artistici, sogno di farlo a breve anche sul Chemsex, e posso assicurare che funziona molto. Pochi giorni fa ho conquistato un master in arte terapia (la formazione non finisce mai), e oltre al teatro counseling io per prima ho riflettuto su nuove possibilità: quando un virus con cui convivi invece di nominarlo e basta magari ti ritrovi a disegnarlo, ricamarlo, farne un modellino, plasmarlo con la creta, impari a dargli un significato nuovo ogni volta, e in parole povere, diventi consapevole, ristabilendo nuove prospettive. Sapete che non promuovo certi approcci per guadagno, io certi percorsi li faccio soprattutto come volontaria e perché ci credo profondamente. A me sinceramente dispiace vedere così tante persone perdersi le loro scopate migliori, farsi scappare i grandi amori della vita, solo perché non conoscono. Allora rimandare ad alcune attività durante un colloquio di pochi minuti come quello del test, può essere un sassolino che crea cerchi concentrici sempre più larghi. È questo alla fine il lavoro che facciamo, dobbiamo crederci per forza. Ma poi lo sapete che salto qualitativo ti fa fare mettere in scena te stesso? È un salto nell’iperspazio. Ok. Ho finito. Ma ci tengo troppo, che ci posso fare? Si vede, è un entusiasmo contagioso e grazie per il lavoro che porti avanti su Roma, servirebbe in tante altre città di Italia. Vogliamo chiudere rimandando all’appuntamento di Piazza dell’Esquilino? Filippo: Voglio solo dare le istruzioni contro lo stigma: indossare una maglietta rossa, venire in Piazza dell’Esquilino Sabato 3 Luglio alle 18:30 e lasciarsi, piacevolmente, sierocoinvolgere. 40 anni con HIV
Sabato 3 Luglio 2021, H18:30 Piazza dell'Esquilino, ROMA Evento FB: Flashmob - 40 anni con HIV |
Conigli bianchiFuori dalla tana, cercando di capire cos'è un blog. archivio
November 2022
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