Come ogni primo dicembre, dopo un silenzio lungo 364 giorni, si torna a parlare di Hiv. Non tutti però possono permettersi di farlo una sola volta l’anno: noi ad esempio con l’Hiv ci (con)viviamo da anni e ci piacerebbe che in questa giornata si parlasse anche di chi con il virus e le difficoltà che comporta già ci vive. Ci chiamiamo Luca e Riccardo, abbiamo 36 anni, stiamo insieme da sette e siamo una coppia siero-magnetica.
L’Hiv ha fatto parte della nostra storia sin dall’inizio: dalla fatica del coming out iniziale, al percorso emotivo, ancor prima che cognitivo, che entrambi abbiamo affrontato, alla continua ricerca di informazioni aggiornate (perché nella moda forse non è così, ma per la scienza gli anni ’80 sono finiti eccome), fino alla fondazione con un gruppo di amiche dei Conigli Bianchi, gli artivist* contro la sierofobia. Con questo progetto abbiamo provato a sfatare i pregiudizi più tossici sulla sieropositività, inizialmente solo in Italia ma ultimamente anche in giro per l’Europa. D’altronde da bravi esponenti della “generazione Erasmus” amiamo viaggiare, e in questi anni casa è stata molti luoghi. Purtroppo non in tutti siamo sempre stati i benvenuti. Il leader di UKIP Nigel Farage, per dirne una, non molto tempo fa ci definì “turisti della sanità”, e propose di bloccare l’accesso al Regno Unito a tutte le persone sieropositive, che a suo dire si curavano a spese dei contribuenti britannici. Da cittadini europei che pagavano le tasse in UK certi proclami ci indignarono ma non ci preoccuparono eccessivamente. Oggi invece ci chiediamo: che effetto avrà la Brexit su tutte le persone sieropositive che vivono in Inghilterra? Noi lo scopriremo a breve sulla nostra pelle. Quella stessa pelle che divenne d’oca quando un’organizzazione internazionale (una di quelle che teoricamente non dovrebbe discriminare sulla base di condizioni mediche, sessualità, background etc) offrì a uno di noi una consulenza negli Stati Uniti che non prevedeva alcuna assicurazione sanitaria, ignorando il fatto che oggi per una persona che vive con Hiv è quasi impossibile stipulare un’assicurazione privata, e di fatto discriminando attivamente chiunque abbia una condizione cronica. Ciononostante siamo consapevoli di essere privilegiati sotto molti punti di vista: abbiamo vissuto sempre in grandi città che garantivano l’accesso gratuito alle terapie; ci muoviamo all’interno di reti di persone che vivono esperienze simili che non ci hanno mai fatto sentire soli; i nostri amici e affetti conoscono la nostra storia e ci sostengono, e abbiamo entrambi un lavoro che ci affatica ma ci piace (che non è poco). Detto questo, non diamo per scontato nessuno di questi privilegi. La nostra generazione di scontato sul suo futuro può dare ben poco: siamo abituati a un lavoro che cambia ogni due o tre anni, a pensioni che paghiamo ma non vedremo mai, a una mobilità lavorativa che lede tutta una serie di garanzie e diritti, a rigurgiti di fascismo, omofobia e razzismo che vorrebbero riportarci indietro di decenni. Per ora il sistema di salute pubblico italiano garantisce l’accesso alle cure per tutte le persone che vivono con Hiv, un accesso però sempre caratterizzato da tempi di attesa che portano via per lo meno mezza giornata. A causa dei tagli e delle continue privatizzazioni l’erogazione degli antiretrovirali, a differenza di quanto succede altrove, avviene su base mensile o bimensile (ed è di nuovo mezza giornata che se ne va). Facendo un calcolo approssimativo tra visite, controlli e ritiro dei farmaci oggi in Italia una persona ha bisogno perlomeno di una settimana (ma i meno fortunati arrivano facilmente a due settimane) di permessi o ferie per aderire alla terapia. E questo quando si ha un lavoro che la malattia la prevede, cosa sempre più rara. E anche in quel caso non si considera mai come un meccanismo del genere comprometta non solo la qualità della vita, ma anche la privacy delle persone, le cui assenze dal lavoro destano puntuale sospetto con i colleghi. Quanto pesa l’invisibilità della sieropositività in un contesto del genere? Moltissimo. D’altronde se hai scelto di non rendere nota a nessuno la tua condizione vertenza non la fai, non denunci un datore di lavoro senza esporti pubblicamente e non puoi davvero aspettarti di cambiare l’immaginario collettivo su questo tema senza uscire dall’anonimato. La questione insomma è che oggi l’Hiv non è più un fatto puramente medico, ma è, come da sempre, una questione politica e sociale che richiede un dialogo pubblico che coinvolga istituzioni pubbliche, società civile, settore privato e mondo del lavoro. Se è vero che la scienza ha fatto passi da giganti, e che l’aderenza alle cure è il principio cardine su cui si basa la risposta all’epidemia, allora l’attenzione alle dimensioni politiche, sociali ed economiche è quanto mai fondamentale. Non esistiamo solo in funzione del virus con il quale conviviamo, ma siamo persone che lavorano, viaggiano, hanno desideri di genitorialità, studiano e si confrontano con tutte le sfide di questi tempi. Se realmente vogliamo vincere la battaglia contro l’Hiv e raggiungere gli obiettivi del 90-90-90 è necessario esigere politiche pubbliche che contemplino l’intersezionalità della condizione della sieropositività con quella dell’essere donna, migrante, lavoratore precario, queer, genitore, partita IVA, trans o pensionat*. Solo tenendo in conto di queste complessità, che evidentemente vanno al di là del mero dato medico, sarà finalmente possibile sconfiggere l’epidemia e lo stigma che l’accompagna e che la rende unica rispetto a tutte le altre condizioni croniche. Ci auguriamo insomma che questo primo dicembre possa diventare un giorno di trasformazione e di celebrazione della visibilità fieropositiva di chi tutti i giorni vive, ama e battaglia con l’Hiv. Buon primo dicembre, buona festa della sieroconsapevolezza. #ConigliBianchi #UequalsU #Wad2019 #WorldAidsDay #PrimoDicembre #Undetectable #EndStigma #Sierofobia #December1st #WAD19
2 Comments
|
Conigli bianchiFuori dalla tana, cercando di capire cos'è un blog. archivio
November 2022
Categories |