Storia breve e autobiografica di Luca Er Baghetta.
Comparsa per la prima volta nella raccolta americana "Anal About My Health" per MPact Global. Nel volume anche una seconda storia del bianconiglissimo Eugenio Nittolo: qui al link l'originale.
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All’interno degli Stati Genderali del movimento LGBTQIA+ associazioni, collettivi e singole persone riportano l’attenzione sull’HIV. La trascrizione degli interventi di Porcahontas (Conigli Bianchi) e di Vitto (Laboratorio Smaschieramenti) al Palermo Pride. Porcahontas - Conigli bianchi"Siamo qui oggi per rifiutare con forza la fobia dell’HIV che da 40 anni espone i nostri corpi e le nostre comunità allo stigma e a nuove continue infezioni. In Italia questo tema è stato troppo poco nominato, sia dai movimento che dalle istituzioni. Prima di noi non c’era neanche una parola per descriverlo questo stigma. E’ per questo che siamo nate: per prendere parola sulle decisioni che vengono (e più spesso NON VENGONO) prese sui nostri corpi, per liberarci da uno stigma che non ha mai avuto senso di esistere, ancor meno oggi! Per dare un nome alle cose. Il nome che abbiamo trovato è SIEROFOBIA. E ci riguarda tuttə, tutte e tutti. Per troppi anni le tante di noi che vivono con HIV non hanno trovato uno spazio sicuro all’interno delle nostre assemblee e dei nostri Pride. Nemmeno la nostra comunità è stata immune all’ignoranza e ai pregiudizi sull’HIV! Dopo più di 40 anni di epidemia, dobbiamo invertire la rotta. SIAMO TUTTƏ SIEROCOINVOLTƏ! Questo non può essere solo uno slogan, ma dobbiamo impegnarci affinché questo grido diventi una pratica politica quotidiana. Trasformiamo la nostra comunità in uno spazio sempre più accogliente e sieroconsapevole. Chi vive con HIV e assume la terapia NON trasmette il virus. U EQUALS U, UNDETECTABLE UGUALE UNTRASMITTABLE, non rilevabile significa non trasmissibile. Su questo la comunità scientifica non ha più dubbi da anni. È inaccettabile che ancora moltə di noi invece dubbi ne abbiano, e che paure irrazionali marginalizzino le persone che vivono con HIV. La paura non ha come unico risultato lo stigma, ma diventa la paura di farsi il test, l’affidarsi alla scaramanzia rispetto alle infezioni sessualmente trasmissibili, il deresponsalizzarsi dicendosi: “preferisco non sapere”. Prendersi cura significa prendersi cura della propria salute, ma anche della salute dellə altrə, dellə nostrə partner sessuali, del nostro collettivo livello di consapevolezza e della nostra capacità di far valere tutti i diritti sulla salute sessuale. Polonia, Bulgaria, Romania, Lituania, Cipro e Italia. Questi gli unici sei paesi d’Europa a non avere l’Educazione sessuale e all’affettività nelle scuole. A negare un diritto universale. Questa cosa, da sola, dovrebbe farci mobilitare con ferocia. Stiamo lasciando solə milioni di giovani, privi di un’educazione al consenso e alla prevenzione, espostə a infezioni che neanche conoscono e ai pregiudizi sulla sessualità che creano così tanta sofferenza e comportamenti dercxzzo. La situazione non cambierà mai finché come movimento non apriremo un dialogo - anche conflittuale - con chi ha il potere, e il dovere, di cambiare le cose. Non assumerci questa battaglia significherebbe lasciare un’ennesima generazione priva di strumenti di consapevolezza. Rifiutiamo le discriminazioni sulla base dello stato sierologico, e ringraziamo chi, con il proprio corpo, sta contribuendo a spezzare la catena dei contagi, grazie alla TASP (Therapy as a prevention) ed alla PrEP. L’unico untore oggi è chi permette che l’ignoranza regni ancora sovrana." "La crisi dell’AIDS ha interrotto una rivoluzione sessuale che aveva appena iniziato a cambiare il mondo: ripartiamo da lì, spogliatə di pregiudizi e armatə di conoscenza fieropositiva." VITTO - LABORATORIO SMASCHIERAMENTI"Con gli Stati Genderali vogliamo aprire un nuovo spazio politico che metta al centro una piattaforma intersezionale di rivendicazioni, che sia fondato sulla cura ed esprima un nuovo modo di fare movimento per la comunità lgbtqia+. Abbiamo bisogno di un nuovo modo di rapportarci all’istituzione ed alla politica istituzionale che metta insieme rappresentanza e conflittualità a partire dall’autonomia politica della nostra comunità. La legge 135/90 in materia di AIDS è ormai obsoleta ed inadeguata e pensiamo che vada adeguata al progresso scientifico e sociale di questi trent’anni. La proposta di riforma in commissione affari sociali è stata portata (dall’On. D’attis di Forza Italia) ancora una volta senza coinvolgere la comunità. E’ stato solo grazie al difficile lavoro delle associazioni che storicamente si occupano di HIV che molte proposte emendative sono state inserite nel testo base, in armonia con il PNAIDS. E tuttavia anche in casi come questo in cui il lavoro di interfaccia con la politica istituzionale, con grande fatica, sembra portare ad un ascolto, resta che il testo non è ancora non incardinato in aula e non sappiamo se lo sarà mai (sicuramente non per fine legislatura). Soprattutto, la pdl al momento non prevede variazione di fondi per la sua attuazione rispetto a quanto previsto per la 135/90. I fondi per la formazione (non solo degli operatori sanitari) e per l’accesso agli strumenti di cura e prevenzione sulle IST sono insufficienti e mal direzionati. Tutto ciò ci dice che una politica di movimento fondata sulla sola rappresentanza non è sufficiente ad evitare che un politico di turno si faccia carico strumentalmente di nostre rivendicazioni, col rischio di giochi politici sui nostri corpi, che si sono avuti con il ddl Zan stesso. Ecco perché occorre che le nostre rivendicazioni attraversino tutte le piazze e le mobilitazioni, a partire dai Pride! Dobbiamo essere noi a prendere parola per noi stessə e dare voce alle nostre rivendicazioni: AUTONOMIA FROCIA!
E’ per questo che con Stati Genderali immaginiamo una politica nuova, desiderante che abbatta ogni forma di stigma e sappia costruire pratiche di cura a partire dai nostri infiniti modi di godere!" 3 luglio 2022, al centro di Venezia compaiono 41 manifesti illustrati: “REVOLUTION WASN’T TELEVISED. BUT HAPPENED” - “SIAMO TUTTƏ SIEROCOINVOLTƏ” - “40 ANNI DI SIEROFOBIA POSSONO BASTARE” - “FIEROPOSITIVƏ E SIEROCONSAPEVOLI” Su ciascuno un messaggio ricorrente: #UEQUALSU A che rivoluzione affaccia quel # ? Per scoprirlo bastano curiosità, accesso a internet e pochi secondi, tre cose che evidentemente mancano alla stampa italiana, che da decenni si ostina su HIV a fare solo sensazionalismo e disinformazione. Proprio il 3 luglio del 1981 il New York Times annunciò l’esistenza dell’AIDS al mondo, descrivendolo come il “cancro gay”. Fu evidente da subito che il virus riguardava tuttə, eppure non sono bastati 41 anni per rompere quella correlazione nefasta. Per questo sui muri della città sono comparsi nella notte proprio 41 poster di artivismo contro la sierofobia. Perché le informazioni per circolare hanno bisogno d’aria, di riverberare nello spazio pubblico e produrre conoscenza condivisa, collettiva. “Il silenzio è morte, la conoscenza è potere”- così gridano da 41 anni lə attivistə di ACT UP (Aids Coalition To Unleash Power). Rifiutiamo di rimanere indifferenti di fronte a 41 anni di stigma, rifiutiamo la falsa morale che vorrebbe dividerci tra santə e puttanə, rifiutiamo l’invisibilità che espone le nostre comunità a nuove infezioni e discriminazioni.
U EQUALS U, i corpi delle donne, degli uomini e delle sirene undetectable spezzano la catena dei contagi. Spezziamo il tabù. Assieme. Nella cura reciproca e transfemminista. SIAMO TUTTE SIEROCOINVOLTE! NON UNA CONIGLIA BIANCA DI MENO. NUDM Venezia e Conigli Bianchi *** A tutte le donne HIV positive che subiscono il doppio stigma del giudizio; a quelle che grazie alle terapie non trasmettono l’infezione a partner e figli ma pagano comunque il prezzo di una società ignorante; a tutte quelle a cui è negato l’accesso agli strumenti di prevenzione e la possibilità di prendersi cura della propria salute. Dopo aver condannato per decenni milioni di persone nel mondo a sviluppare l’AIDS pur di non sollevare le patenti dei farmaci antiretrovirali, Big Pharma ancora una volta sta dando priorità ai profitti invece che alle vite umane. Questa volta lo fa rifiutando di condividere la tecnologia e i brevetti dei vaccini del Covid con i paesi che, ai prezzi attuali, non possono permettersi di pagarli. La People's Vaccine Alliance ha lavorato instancabilmente per far luce sulla disuguaglianza che caratterizza l’attuale accesso ai vaccini, un vero e proprio apartheid vaccinale, ma l'industria farmaceutica sta reagendo duramente, dedicando ingenti risorse per neutralizzare gli sforzi comunicativi delle associazioni e della società civile, diffondendo disinformazione nei media mainstream, spostando il dibattito sulla logistica, mentendo sugli ingenti finanziamenti pubblici ricevuti, minimizzando gli effetti che i ritardi nelle vaccinazioni hanno sulla nascita di nuove varianti. È il momento di far sapere a queste aziende che il loro piano non funzionerà, di metterci la faccia, anzi gli occhi, e riempire i nostri feed, muri, e piattaforme social della nostra indignazione. Oggi, e per tutta la settimana, partecipare all’azione #EyesOnPharmaGreed è molto semplice: noi Conigli Bianchi, assieme alla People's Vaccine Alliance, ti chiediamo di pubblicare un selfie, una foto con un primo piano dei tuoi occhi, su Twitter, Facebook, Instagram o LinkedIn utilizzando l'hashtag #EyesOnPharmaGreed, (*occhi puntati sull’ingordigia delle case farmaceutiche) a simboleggiare l’importanza di tenere gli occhi aperti sull'avidità farmaceutica, incoraggiando altr* a fare lo stesso, riportando l'attenzione e il dibattito pubblico sul fronte più cruciale della battaglia contro la pandemia, e proprio in occasione della visita di Angela Merkel negli Stati Uniti il 15 luglio. Se vuoi puoi includere nel tuo tweet i motivi personali per cui ritieni importante che questa incontrollata avidità debba finire. Qui un esempio di tweet che puoi adattare, o copiare e incollare e utilizzare così com'è: Ho miei occhi sulla vostra avidità, #EyesOnPharmaGreed, e chiedo la fine del #VaccineApartheid @Pfizer @BioNTech_Group @Moderna @AstraZeneca @JNJNews condividete la tecnologia e i know-how per garantire che tuttə, ovunque, siano al sicuro dal #COVID19. #PeoplesVaccine #NoProfitOnPandemic La coalizione #PeoplesVaccine sta anche cercando con urgentemente storie di persone che sono state (o che hanno persone care che sono state) colpite dall'avidità delle case farmaceutiche. Queste storie non hanno bisogno di essere legate al COVID, ma possono essere altrettanto emblematiche se testimonieranno in prima persona come si è lottato per accedere, o permettersi, farmaci per il diabete, l'HIV, il cancro, l’epatite, terapie ormonali, ecc. ecc. Se tu, o qualcuno che conosci, fosse dispost* a condividere la propria storia (in un tweet, in un breve paragrafo con una foto, in un breve video o in una qualunque altra forma) può inviarlo via email a take.action@peoplesvaccine.org Grazie mille per supportare questa azione, insieme possiamo fare la differenza! Conigli Bianchi con #PeoplesVaccine PS: Se sei un* cittadin* dell’Unione Europea e non lo hai già fatto, è ancora aperta la raccolta firme dell’iniziativa dei cittadini europei #NoProfitOnPandemic per chiedere che la Commissione europea faccia tutto quanto in suo potere per rendere i vaccini e le cure anti-pandemiche un bene pubblico globale, accessibile gratuitamente a tutt*.
Abbiamo ancora poco tempo per raccogliere un milione di firme. Si può firmare, far firmare e trovare tutte le informazioni su: noprofitonpandemic.eu/it/ ![]() Sabato 3 Luglio Plus Roma annuncia un flashmob per il 40° anniversario dell’HIV. La nostra leprotta bisestile ha raggiunto la counselor Angela Infante e l’attivista Filippo Leserri, che hanno ideato e organizzato con Plus Roma l’iniziativa. Grazie di aver accettato l’invito per questo tè all’orgoglio e zenzero. Come mai proprio questa data e quale messaggio portate in piazza? Filippo: Il 3 Luglio 1981 il New York Times pubblicò quel primo articolo dal titolo “Scoperto raro caso di cancro in 41 omosessuali”. Allora ovviamente non si parlava né di AIDS né di HIV, termini coniati rispettivamente nell’82 e nell’86, ma si parlava già di maschi gay. Un’associazione che è rimasta impressa nell’immaginario generale fino a oggi. Celebrare questa ricorrenza 40 anni dopo riporta l’attenzione su una delle epidemie più lunghe della storia, e su un virus che resta ancora attivissimo. Grazie alle terapie abbiamo reso gestibile l’infezione e conquistato lunghe prospettive di vita per chi vive con HIV, ma non è stato facile, e, sopratutto, non tutti viviamo in paesi in cui l’accesso a queste terapie è garantito. Con quest’azione ricordiamo che sono morte 38 milioni di persone, ma anche che di AIDS ancora si muore. Si muore perché si nasce nella nazione sbagliata, oppure perché ci si rifiuta di assumere le terapie o si scopre troppo tardi di averne bisogno. Torniamo in piazza inoltre per ricordare che noi persone sieropositive esistiamo, e abbiamo diritto alla salute come chiunque. Lo abbiamo acquisito grazie ad anni di lotte e denunciamo quanto negli ultimi anni la tutela di questo diritto si sia preoccupantemente ammorbidita. La pandemia da Covid19 dovrebbe averci ricordato quanto sia importante custodirlo attivamente e non darlo per scontato. Angela: Condivido ciò che ha detto Filippo, penso però al 3 luglio come a una vera e propria “commemorazione”. Volevo ricordare tutte quelle persone che dal 1981 sono cadute vittime dell’AIDS, ma anche di stigma e pregiudizio. Queste persone che abbiamo perso appartenevano a una comunità che si stava ancora definendo: abbiamo perso amici, amanti, compagni, ballerini, coreografi, musicisti, scrittori, personalità di ogni tipo e persone comuni. Un’intera generazione. E nella mia mente era proprio quella che sarebbe riuscita a fare la differenza, a cambiare il mondo. Mi chiedo spesso, ad esempio, se il movimento senza questa epidemia sarebbe andato in un’altra direzione, se non avremmo intrapreso strade illuminate da più cultura, più lettura, più arte, più conoscenza, più consapevolezza. È per questo che ho pensato che rendere onore al 3 luglio fosse doveroso. Nel 2021 non potevamo accontentarci di accendere i riflettori solo il 1°dicembre. Sarebbe bello se da questo momento in poi si continuasse a celebrare questa data. Il 3 luglio di 40 anni fa alcuni giornalisti suggerivano che un raro cancro potesse essere in qualche modo “gay” sottintendendo che una patologia potesse riguardare un orientamento piuttosto che un altro. È importante rifletterci, ci dice da dove siamo partiti e quanta strada abbiamo percorso. Aggiungo poi che “commemorare” non deve essere per forza un gesto triste. Un gesto politico forse, come tutto quello che facciamo d’altronde, ma per me sarà principalmente un gesto vitale. Vorrei ricordare la bellezza di queste persone che hanno fatto parte della nostra vita. Tengo anche nel cassetto da tanto l’idea di uno spettacolo e un progetto artistico che prova a immaginare come sarebbe cambiata la mia vita se quella "certa persona" fosse ancora con me oggi… ma meglio passare a un’altra domanda, che sennò mi commuovo. Ti ringrazio e te la servo subito Angela. Era mai stato festeggiato il 3 luglio in Italia? Angela: Non mi risulta. Qualcosa sui 30 anni dell’HIV forse. I decennali dell’HIV sono sentiti più che altro negli Stati Uniti, ma io questa idea negli scorsi mesi l’ho disseminata comunque. Forse il Milano Check Point continuerà a svilupparla anche dopo l’estate come anniversario importante per la comunità, e Plus Roma l’ha accolta subito con entusiasmo. Ne sono onorata, e Giulio Maria Corbelli, Fabio Bo, Filippo e tutto il gruppo sono stati molto ospitali. Filippo: Avevamo anche alle spalle l’azione del 1°Dicembre 2020, #HIVISIBLE-together, molto partecipata nonostante pioggia e restrizioni Covid, e ciò ci ha incoraggiato a prendere nuovamente e pubblicamente parola. Scendere in piazza è importante, su questo tema lo si fa sempre meno, ma invece è un modo per dare un volto a qualcosa e qualcuno. Ed è proprio questo che serve per superare lo stigma. Alcune associazioni hanno fatto cadere la ricorrenza dei 40 anni il 5 giugno, riferendosi al giorno in cui la notizia uscì sul MMWR [Morbidity and Mortality Weekly Report, il bollettino del Centers for Disease Control di Atlanta]. In effetti è quella la pubblicazione che riprende il NYT pochi giorni dopo. C’è un motivo per cui avete scelto di ricordare l’uscita sul NYT e non quella su una pubblicazione scientifica? Angela: Posso dire, nonostante io lavori in un policlinico, che siamo stanchi di ridurre l’HIV a una questione solo medica? Superando la monumentale riconoscenza nei confronti della medicina, che per carità, i medici a tutti gli effetti, ti salvano la vita, possiamo dirci che, sopratutto in Italia, rispetto all’implementazione PrEP e diffusione capillare del messaggio di U=U, i medici si sono mossi con inaspettato ritardo? O che è difficile dimenticarsi che mentre la gente moriva Montagnier e Gallo discutevano su chi avesse scoperto il virus? Possiamo anzi ricordarci di come molti passi in avanti su questo fronte si sono fatti grazie a una pressione politica continua, a volte disperata, da parte della società civile? D’altra parte non mi pare di aver visto fiumi di fiocchetti rossi in corsia il 5 giugno. Mi sarò distratta. ll New York Times presentò l’AIDS al mondo intero. Lo fece male, ma lo spartiacque culturale che segna "un prima e un dopo" è quello. Filippo: E poi quell’articolo del NYT se lo ricordano tutti. Angela: Tutti. E tutte. Per chi è sopravvissuto all’epidemia quell’articolo è un ricordo indelebile. Dopodiché l’AIDS circolava da anni, non ha mietuto le sue prime vittime nel 1981. Pare circolasse almeno dal 1969. E di contro per molti l’AIDS non è esistito finché non ha avuto un impatto diretto sulle loro vite, cosa che magari è successa negli anni ’90, o nei 2000, o forse domani. Interessante sarebbe chiedersi perché ci è voluto così tanto per accendere un’attenzione medica su questo e chi erano le persone che morivano ricevendo diagnosi erronee. Restando quindi nell’ambito del simbolico, questa data è importante per il suo portato culturale. Come si svolgerà la giornata del 3 luglio? Dove e in che forma è possibile partecipare? Filippo: Per il flashmob, diamo appuntamento a tutt* sabato 3 luglio alle 18:30 a Piazza Dell’Esquilino, alle spalle di Santa Maria Maggiore, a pochi metri dalla Stazione Termini! L’azione sarà performata da 41 persone che indosseranno maglie rosse con su stampato ciascun anno di questi 40 anni di epidemia. Abbiamo chiesto anche a chiunque altr* sentirà il piacere di raggiungerci di indossare il colore rosso, perché ci piacerebbe inondare tutta la piazza di questo colore, che rimane rappresentativo della lotta allo stigma e delle battaglie di prevenzione all’AIDS di questi 40 anni, e che per questo ormai io associo a un sentimento di comunità e speranza. Angela: L’idea è poi di mostrare quella prima pagina del New York Times, e presentare all’interno di questo simbolico giornale alcuni messaggi chiave che abbiamo scelto collettivamente, ma che non voglio anticipare. Sarà un flashmob molto veloce e stiamo ancora valutando alcune opzioni emotivamente un pò toste. Vedremo cosa ci sentiamo. Rispetto al colore aggiungo che il rosso è da sempre il colore del sangue, del pericolo, ma anche quello della passione, quella che noi come comunità sierocoinvolta abbiamo messo nell’occuparci di questa pandemia e che non deve passare inosservata. Quindi sarà anche il rosso del pathos, della lotta. Filippo: Invitiamo tutti e tutte a indossare una maglietta rossa proprio perché ci teniamo a rappresentarci come una comunità coesa. Forti della storia che abbiamo alle spalle, mi piacerebbe che tutte le persone che si uniscono alla piazza, a prescindere dal loro stato sierologico, non avessero nessun problema a dirsi “sieropositivə” per un giorno. Stiamo lavorando sulla visibilità delle persone sieropositive, che sappiamo non si potrà mai raggiungere senza l’aiuto di una collettività, di chi positiv* non lo è, ma ci è comunque vicino e solidale. Questa piazza in questo senso può trascendere il simbolico e rappresentare un aiuto concreto per tutte le persone che vivono con HIV. Mi sembra di capire quindi che alcuni dei messaggi che contraddistinguono questa giornata sono il reclamare la visibilità “fieropositiva” delle persone che vivono con HIV e l’essere tutt* sierocoinvolt*. Ci tenete ad anticiparne altri, per tutte le persone che verranno in piazza questo sabato pomeriggio? Filippo: Standomi molto a cuore il tema della PrEP, il mio preferito è sicuramente “Liberi di godere”. Non solo perché la PrEP è un dispositivo efficacissimo per limitare la diffusione del virus, ma perché rimette al centro di tutta la mia comunità il tema del piacere e della libertà sessuale. Il piacere per me è un diritto umano. Quanto in un contesto di omofobia e sierofobia siamo come comunità in grado di riappropriarci del piacere oggi? È un tema su cui dovremmo interrogarci, non solo dal punto di vista della salute fisica, ma di quella mentale, della qualità della vita stessa. Angela: Un messaggio che è quasi un grido di esasperazione per me è “Famose ‘sto test”, perché ancora nel 2021 viviamo in questo psicodramma da test HIV. “lo faccio”, “Non lo faccio”, “Preferisco non sapere”, “Ne faccio 4 diversi in diverse strutture”- Basta! Questa impasse generalizzata sul test, che non riesce a normalizzarsi come banale prassi di routine, è il risultato delle pessime, o inesistenti, campagne ministeriali di prevenzioni fatte in questi anni. “Famose ‘sto test”, letto proprio con questo tono esausto che senti adesso nella mia voce, lo dovremmo scrivere sui muri di tutte le scuole italiane di ogni ordine e grado. E speriamo di farlo. Anzi: facciamolo! Un altro messaggio a cui tengo molto è sicuramente "U=U”, perché ci permette di educare chi ancora non sa che chiunque viva con HIV ed è in terapia efficace oggi ha lo 0% di possibilità di trasmettere l’infezione. Certo stigma e diffidenza non si superano col nozionismo ma attraverso processi emotivi e culturali, però che il rischio fosse dello 0% spaccato prima non lo potevi dire. Oggi sì. Questo fa una grande differenza. Il terzo messaggio che mi emoziona è lo stesso di Filippo, “Liberi di Godere”. Angela: Posso aggiungere anche due intenzioni che mi porterò in piazza sabato e che la serie “It’s a sin” di Russell T. Davies spiega benissimo? Invito a vederla chi non l'avesse fatto. Il primo momento che mi risuona ancora in testa è il dialogo della protagonista femminile con la madre dell’amico del cuore, dove si sfata il mito della madre che è per definizione sempre e solo mossa dall’amore. Di mamme ce ne sono tante tipi, e diciamocelo, non tutte hanno sempre gli strumenti necessari a evolversi culturalmente e a diventare davvero buone madri. Chi appartiene alla comunità LGBTQIA+ questo lo sa bene, ma la storia stessa dell’AIDS ce lo conferma: oltre alle famiglie in cui si nasce esistono anche quelle che si costruiscono al di fuori dei legami di sangue. E queste meritano di essere celebrate. Un’altro sentimento che porterò al flashmob è evocato nella serie quando il protagonista, che continua a parlarle nonostante lei palesemente non lo capisca, dice alla madre: “Sai cosa mi dispiace? Che alla fine di tutta questa storia le persone si ricorderanno i morti. Invece io mi voglio ricordare tutti gli uomini che mi sono scopato, e che mi sono scopato con grande, grandissimo sentimento”. Dovremmo davvero ridefinire cosa intendiamo per “responsabilità” quando parliamo di HIV. Per me significa “rispondere abilmente a una situazione”, quindi: a volte si risponde abilmente indossando il preservativo, perché ce lo si porta dietro e ci va, e altre, con la medesima abilità, non lo si indossa, per qualunque sia il motivo per cui non lo si mette, ma ci si assume la responsabilità di quello che viene dopo. Se lavorassimo stressandolo di più questo fronte supereremmo tanti giudizi verso noi stessi. Per carità, ci vuole tempo, il coming out sierologico è un coming out complesso e nessuno lo nega. Però è pure vero che in Italia siamo lenti. Un lavoro enorme in questo senso lo potrebbero fare tutte le associazioni. Dovremmo ricominciare a vedere i film assieme, guardare le serie, parlare di libri assieme, ci credo molto. Altrimenti ripartiamo ogni volta da capo. A proposito di fare cose assieme. Quest’evento chiude praticamente il mese del Pride. A 40 anni dall’arrivo dell’AIDS, in che rapporti sono oggi comunità LGBTQIA+ e HIV? Immagino che i rapporti in questi 40 anni abbiano subito evoluzioni, a che punto siamo? Filippo: Allora parto da un dato statistico: la comunità gay, anzi meglio, la popolazione MSM (maschi che fanno sessi con maschi, che comprende come sappiamo non solo persone omosessuali, ma anche bisessuali, transessuali, questioning, etc.etc.) è tuttora quella più interessata a livello epidemiologico. Strumenti come PrEP o le terapie che portano a U=U possono aprire oggi una riflessione sul fatto che 30 anni di prevenzione schiacciata su un unico presidio, il profilattico, sono stati una piccola bugia. Tolti i giudizi morali e le buone intenzioni, attraverso i dati abbiamo visto che le persone hanno continuato a non usarlo ‘sto benedetto profilattico. Le scelte sul safer sex e sui comportamenti sessuali le conosciamo ormai. Oggi abbiamo quindi l’occasione di recuperare, come comunità LGBTQIA+ una riflessione generale aggiornata su HIV & AIDS. All’arrivo delle terapie la mia comunità aveva tacitamente deciso, anche comprensibilmente, di prendere le distanze dal tema, perché per troppo tempo ci si era portati questo stigma collettivo, quell’etichetta che lo raccontava come solo nostro. Oggi tutto questo si può rilanciare, e sovvertire. Potremmo ricucire il legame tra HIV e comunità, senza avere più paura di essere etichettati, ma affrontando finalmente, pienamente, la questione delle persone che vivono con HIV, della loro visibilità, della loro dignità. Anche semplicemente il fatto di poter scendere in piazza, con tutte le persone con HIV, sarebbe dimostrazione da parte della comunità di comprendere il dolore che si prova ad essere discriminat*, la vergogna, il senso di colpa che si prova ancora oggi nel dire “io sono sieropositiv*”. Questo è un momento storico delicato. Come Plus Roma, siamo stati orgogliosi di sfilare al Roma Pride come persone LGBTQIA+ con HIV. Nel nostro striscione, “Insieme blocchiamo l’HIV” la parole chiave per me era proprio insieme. Sarebbe bello quindi, considerato anche quanto la storia dell’attivismo ci lega indissolubilmente, che le prossime manifestazioni di piazza in cui si parlerà di noi venissero sentite come proprie e come un impegno da tutta la comunità. In fondo stiamo lottando contro lo stesso stigma. Angela: Ti racconto quello che mi è successo di recente in una scuola superiore. Domando alla classe: “Se un maschio etero si contagia con l’HIV, che valore date a questo evento? Cambia la vostra idea di quella persona?”. Risposta iniziale della classe “Mmm, no dai. Sono cose che capitano nella vita”. Bene. Dopo domando “E se è una donna eterosessuale che viene in contatto con l’HIV?” e mi rispondono “Poverina” (e già le mie coronarie stavano sul lungotevere). Allora chiedo “E se delle persone con una tossicodipendenza si scoprono HIV positive?” e loro abbastanza compatti rispondono “Poverini pure loro, sono presi dal sistema della droga” (soprassediamo sul fatto che nel 2021 ancora ci si possa permettere di non sapere cosa ti fa l’eroina). Alla fine domando “E se un uomo gay si scopre HIV positivo?” plebiscito generale: “Eh vabbè, così te lo sei andato a cercare!”. Ecco. Ragazzi e ragazze di 16 anni. Questo è un esempio semplice, e potevo farne altri mille, ma ti racconta come la situazione culturale e di percezione generale ad oggi non sia cambiata. E mi dispiace molto doverlo dire. Siamo ancora in un paese in cui l’HIV viene percepito da troppe persone come un problema a carico della comunità gay. Abbiamo fatto passi in avanti? Non lo so, forse troppo pochi. A Roma per dire abbiamo dovuto aspettare la giunta Raggi per vedere uno Stop Aids proiettato sulla piramide Cestia. E gli altri sindaci? Possibile che nessuno si sia degnato di ragionare su questo tema prima? Dobbiamo pretendere una migliore informazione, campagne di comunicazione in grado di trasformare l’HIV in un tema comune, quotidiano, maneggiabile. Questo non sta succedendo. Se poi pensiamo che la metà della popolazione LGBTQIA+ è pregiudizievole nei confronti di se stessa, hai fatto la frittata. Questionari in cui i membri della nostra comunità ti scrivono “Se io faccio sesso con una persona sieropositiva questa me lo DEVE dire” e due righe sotto “Se io fossi sieropositivo però non lo direi MAI ”. A volte sembra di stare in un loop. Filippo: Se oggi ancora tante persone omosessuali hanno un problema a parlarne apertamente, penso sia perché a frenarli c'è quasi sempre uno schiacciante senso di colpa. È un segnale che la comunità LGBTQIA+ non è ancora cresciuta, e non riesce a fare i conti con la propria omofobia interiorizzata. Angela: Ci siamo. Filippo: Troppi pensano “io sono diverso”, “faccio sesso sbagliato, quindi mi espongo a un rischio”, “me lo sono cercato”, “è colpa mia”, certi sentire sono ancora troppo forti all’interno della comunità. Ed è un sentire che pregiudica poi i percorsi di cura di sé e i comportamenti legati al safer sex. Se questo è ancora così forte tra le persone sieropositive gay, vuol dire che qualcosa non sta funzionando, non c’è stata crescita. Angela: E su questo punto, in quanto counselor di persone sieropositive, confermo che gli eterosessuali non hanno questo senso di colpa. Ce l’hanno magari rispetto all’essersi informati male, o perché son capitati in quel dato giorno in quella data situazione, però non c’è questa flagellazione generalizzata. Il senso di colpa che viene dall’omofobia interiorizzata lo riconosci subito, ed è difficilissimo lavorarci. Se gli infettivologi avessero la capacità di lavorare anche su questo piano, o ne fossero coscienti fino in fondo visto il gran parlare che si fa di benessere psicologico, minority stress e aderenza alla terapie, forse si potrebbe fare una piccola rivoluzione. Basterebbe fare ovunque quello che alcuni professori illuminati già fanno, ad esempio l'unità operativa dove lavoro forma gli specializzandi e organizza corsi di counseling, o aggiornamenti sul Chemsex, sui comportamenti sociali, etc. Questo libererebbe di pregiudizi e magari metterebbe a valore l’esperienza delle associazioni. Servirebbe un intervento istituzionale, ma siamo ancora in mano alla lungimiranza dei singoli presidi clinici. D'altronde, se le reazioni a una diagnosi oggi sono identiche a quelle che avevamo 15 anni fa, vuol dire che siamo fermi. E lo dico da ottimista. E questo mi sembra non contraddica il lavoro culturale e di servizio che sia Plus che tu Angela state facendo rispetto al fenomeno del Chemsex. Rispetto a donne e HIV invece com’è la situazione oggi secondo te? C’è stata un’evoluzione rispetto a quella invisibilità che partiva dai trial medici fino alla sotto-rappresentazione sui media? Angela: La situazione delle donne è complessa, in particolare quella delle donne lesbiche. Evocando di nuovo la cinematografia, se dai un’occhiata ad esempio al famoso “When We Rise”, dove c’è una forte componente femminile, si parla della nascita del movimento lesbico, della case delle donne, dei movimenti separatisti femministi, etc, un’idea un pò di quegli anni te la fai. E scopri che anche in certi ambienti rispetto all’HIV si è avuto un atteggiamento molto giudicante. In vita mia la frase “Cosa vuoi aspettarti da maschi che fanno sesso in continuazione e si drogano” l’ho sentita tante volte, spesso in contesti che non ti aspetteresti. A parte questa tendenza, che non mi sembra serio quantificare, è importante dire che le donne sono state anche ottime alleate, tanto le lesbiche come le eterosessuali, tanto le donne trans* come quelle cis, milioni di donne che hanno aiutato milioni di amici a morire in maniera dignitosa. Occupandosene, ma non in quanto donne, perché tanti uomini hanno fatto ovviamente altrettanto, ma in quanto sorelle, amiche, “compagne” nell’accezione più fluida si possa immaginare. Non sto confermando che la professione di cura sia una professione femminile, ma piuttosto che è la professione di chiunque è predisposto alla cura e all’accoglienza dell’altro. Un lavoro emblematico fu quello delle Blood Sisters ad esempio, che crearono un movimento lesbico per la raccolta del sangue in un momento in cui ce n’era un bisogno disperato. O le lotte di ACT UP per inserire nelle sperimentazioni sui farmaci anche le donne che venivano escluse, e che, nonostante si contagiassero in percentuali minori, comunque si contagiavano e ammalavano. Celebre lo slogan “Le donne non prendono l’AIDS. Ne muoiono e basta”. Poi sì, si è svolto innegabilmente un ruolo importante in termini di coesione delle comunità, un lavoro di lotta e di cura, ma non di cura nel senso “to cure” bensì nel senso di “to care”. Eravamo una comunità molto unita. E certo, una donna in quegli anni ha avuto la probabilità di perdere più amici di quanto magari un uomo avesse probabilità di perdere amiche, ma oggi queste generalizzazioni è urgente superarle. Anche perché le donne, tutte le donne, lesbiche, etero, bi, trans*, continuano a essere meno visibili rispetto a questo tema. E quando visibili si rendono, nell’immaginario comune, sono automaticamente ex tossicodipendenti o passive vittime di uno stronzo che le ha infettate. Arriviamo sempre là. E la realtà ovviamente è molto più complessa di così. Oggi ci troviamo a dare diagnosi a ragazze giovanissime, ci troviamo davanti una serie di sfide culturali, legate all'accesso ai servizi, alla ricerca, ai presidi di prevenzione, che esigono evidentemente che la donna occupi più spazio nell’arena dell’HIV. Filippo, un’ultima domanda sul nuovo Check Point di Roma. Cosa cambia da ora in poi in città sul piano della prevenzione? Filippo: Ci terrei a mantenere distinti i piani. I volontari di Plus pur essendo impegnati nell’offerta di una serie di servizi, prima a Bologna e poi a Roma, non hanno mai voluto rinunciare a un lavoro anche politico e sull’immaginario. Detto ciò l’importanza del test credo ce l’abbia confermato anche la pandemia da Covid19: il test è l’unico strumento che ci permette di combattere la diffusione di un virus. Ne consegue che un accesso facilitato al test, gratuito, anonimo, fatto non necessariamente in un ambiente ospedaliero, magari accompagnato da una chiaccherata di 20 minuti, è molto importante. È per questo che nasce il modello Check Point, che finalmente è arrivato anche nella capitale, e che noi di Plus Roma abbiamo avuto l’onore e il piacere di ricevere in gestione. Sarà uno spazio che coinvolgerà tutte le associazioni che si occupano di HIV, e offrirà come servizio principale test rapidi e gratuiti, non solo per HIV ma per tutte le infezioni a trasmissione sessuali (o di gran parte diciamo, sappiamo che l’HPV è purtroppo capitolo a parte). Speriamo di riuscire anche ad aprire quanto prima uno sportello PrEP, ci teniamo moltissimo. Detto ciò il Check Point è anche un luogo dove si destruttura lo stigma, dove le persone possono parlare e confrontarsi liberamente, fuori da un contesto delicato come è quello dell’ospedale, e non interfacciandosi a personale medico o psicologi, ma a persone alla pari, persona preparate ma con il quale si instaura una relazione orizzontale, non giudicante e fatta prima di tutto di ascolto. Angela: Aggiungo, da persona che ama molto PLUS, ha seguito i loro corsi, con loro si è formata, e molto di quello che ha imparato l’ha imparato grazie a loro, che mi piacerebbe che Plus valutasse anche ulteriori approcci all’HIV. Per esempio Plus organizza questi venerdì positivi dedicati alle persone sieropositive, che lì trovano uno spazio di confronto sicuro e necessario. Se volessimo ragionare sul “sierocoinvolgimento”, penso sarebbe importante a un certo punto aprire anche a compagne o compagni di persone sieropositive o a chi sta incominciando una relazione con chi vive con HIV e magari non ha le idee chiare. Lo facevo con il progetto HAARTisticamente e nei miei laboratori artistici, sogno di farlo a breve anche sul Chemsex, e posso assicurare che funziona molto. Pochi giorni fa ho conquistato un master in arte terapia (la formazione non finisce mai), e oltre al teatro counseling io per prima ho riflettuto su nuove possibilità: quando un virus con cui convivi invece di nominarlo e basta magari ti ritrovi a disegnarlo, ricamarlo, farne un modellino, plasmarlo con la creta, impari a dargli un significato nuovo ogni volta, e in parole povere, diventi consapevole, ristabilendo nuove prospettive. Sapete che non promuovo certi approcci per guadagno, io certi percorsi li faccio soprattutto come volontaria e perché ci credo profondamente. A me sinceramente dispiace vedere così tante persone perdersi le loro scopate migliori, farsi scappare i grandi amori della vita, solo perché non conoscono. Allora rimandare ad alcune attività durante un colloquio di pochi minuti come quello del test, può essere un sassolino che crea cerchi concentrici sempre più larghi. È questo alla fine il lavoro che facciamo, dobbiamo crederci per forza. Ma poi lo sapete che salto qualitativo ti fa fare mettere in scena te stesso? È un salto nell’iperspazio. Ok. Ho finito. Ma ci tengo troppo, che ci posso fare? Si vede, è un entusiasmo contagioso e grazie per il lavoro che porti avanti su Roma, servirebbe in tante altre città di Italia. Vogliamo chiudere rimandando all’appuntamento di Piazza dell’Esquilino? Filippo: Voglio solo dare le istruzioni contro lo stigma: indossare una maglietta rossa, venire in Piazza dell’Esquilino Sabato 3 Luglio alle 18:30 e lasciarsi, piacevolmente, sierocoinvolgere. 40 anni con HIV
Sabato 3 Luglio 2021, H18:30 Piazza dell'Esquilino, ROMA Evento FB: Flashmob - 40 anni con HIV 40 anni fa, il 3 luglio del 1981, il New York Times pubblicava un articolo dal titolo “Scoperto raro cancro in 41 omosessuali“. Quel ‘raro cancro’, a cui poi ci si riferì come il ‘cancro gay’, era l’AIDS, e quella era solo la prima pagina di una storia la cui fine non è ancora stata scritta. SinnombreTeatro l’11 e il 12 giugno porta in scena al Centro Culturale Artemia, un lavoro che ricorda e celebra i primi, e si spera gli ultimi, 40 anni dell’HIV: “Un gioco Virale”. Lo spettacolo scritto e diretto da Danilo Caiano, interpretato da Gisella Cesari e lo stesso Danilo Caiano, è prodotto da Angela Infante, in co-produzione con il Centro Culturale Artemia e con il sostegno del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli. È anche l'evento di apertura del Roma Pride che, durante tutto il mese di giugno, celebrerà il #PrideMonth2021. Abbiamo sedotto (o almeno c'abbiamo provato) e intervistato il regista, autore e co-protagonista per fargli fare qualche domanda dal nostro Brucaliffo fieropositivo. Grazie di essere venuto nel mio giardino Danilo. Come nasce l’idea di questo spettacolo, “Un gioco virale”? Sicuramente nasce grazie all'incontro con una donna meravigliosa che adoro da anni, Angela Infante, che mi ha sfidato chiedendomi di immaginare uno spettacolo a tematica HIV che usasse toni leggeri e non drammatici. L’ambizione era quella di costruire una narrazione che non rimandasse agli anni '80, come avviene puntualmente al cinema o in tv, o in serie recenti e prodotti validissimi come “Pose” e “It’s a sin”, ma che riguardasse e arrivasse ai giorni nostri. L’immaginario collettivo è ancora molto condizionato dalla narrazione mainstream che ha raccontato la sieropositività sempre e solo in un modo. Film come "Philadelphia" o "Le Fate Ignoranti" hanno avuto una grande importanza ed erano (quasi) al passo coi tempi, ma oggi manca totalmente il racconto di come vive una persona sieropositiva nel 2021 . Per chiarezza, la pesantezza allucinante di molte opere di fiction è più che giustificata dalla strage avvenuta. Parliamo di 33 milioni di morti. Però è anche vero che oggi la realtà, nei fortunati paesi dove l’accesso ai farmaci è garantito, è molto cambiata. E questo permetterebbe eccome di costruire nuovi immaginari, di contrastare quello che negli anni è rimasto un vero e proprio tabù. Così con Sinnombre Teatro abbiamo raccolto la sfida di Angela, e provato a creare un momento di intrattenimento, accogliente anche verso chi non frequenta troppo il tema. Mmmh. Ambiziosi! E a chi si rivolge quindi “Un Gioco Virale”? Lo spettacolo è rivolto a tuttә, però lo consiglierei soprattutto ai giovani, ragazzi e ragazze di 16/18 anni che vogliono approcciarsi all’argomento, perché è leggero ma è anche ricco di informazioni. Durante lo spettacolo infatti vengono evocati molti termini affatto scontati, come viremia soppressa, PrEP o UequalsU, e per non lasciare dubbi al termine di ogni replica abbiamo anche pensato di aprire, grazie al sostegno di un esperto, un piccolo spazio di dibattito. Ci piacerebbe approfondire ciò che nominiamo nello spettacolo e lasciare spazio a domande. L'obiettivo finale resta quello di creare un momento di svago di mezz'ora, ma anche di far sapere come si vive oggi con HIV e cosa è successo in questi 40 anni. È rivolto a chiunque avverta un sano desiderio di saperne di più. Ok, quindi praticamente è rivolto a tuttu! Esatto. Con queste premesse che idea avete avuto? Puoi anticipare qualche dettaglio sulla storia? Certo. Ci siamo scervellati un po' perché non è automatico riuscire a parlare di HIV in modo divertente. Ma a un certo punto è nata l’idea di paragonare la pandemia a una partita a scacchi lunga 40 anni. Abbiamo immaginato due protagonisti, Alfa e Beta, un ragazzo e una ragazza, che intraprendono questa partita evocando termini, come contagio o cura, che con gli scacchi hanno poco a che vedere. Non anticipo nulla sul finale, ma di base da un lato c’è un Alfa che per vincere la partita cerca di diffondere il virus il più possibile e dall’altro una Beta che cerca come può di fermarlo. L’andamento della partita ripercorre un pò le tappe della storia dell’AIDS, quindi inizialmente, alla scoperta di un retrovirus con la mortalità del 100%, la partita sembra totalmente in mano ad Alfa. Ci sono mosse come la fantomatica terapia AZT che sembrano in parte funzionare per Beta, che entra però davvero in partita solo con l’arrivo della terapia ART. La partita è lunga, e dal 1981 si arriva ai giorni nostri parlando anche di prevenzione e U=U, ma sempre nella maniera più comica possibile. In scena sarete solə o avete costruito anche una scenografia ad hoc? Abbiamo pochi elementi scenici ma molto presenti. I due attori governano la scena ma dovranno anche manipolare giganteschi scacchi da giardino, c'è una contrattazione perenne rispetto al preservativo raccontata con simbolici palloncini, si rappresenta la questione fintamente ossimorica tra protezione e piacere, compaiono fili rossi contagio, insomma succedono cose. Chi interpreterà “Un Gioco Virale”? Io, Danilo Caiano, e Gisella Cesari, l’attrice con cui ho fondato la compagnia teatrale Sinnombre Teatro. Solitamente è Gisella l’attrice principale dei nostri spettacoli, perché è bravissima e poliedrica, e perché di solito non recito negli spettacoli che scrivo e di cui faccio regia. Per questo spettacolo però ci tenevo particolarmente ad esserci, la stessa Angela ci teneva fossi anche io in scena, perché per un progetto del genere metterci la faccia è importante. Cosa intendi per metterci la faccia? Parlo dell’importanza che una storia del genere venga raccontata da una persona apertamente sieropositiva, come lo sono io. Mi piace pensare che anche un momento breve e leggero abbia il potere di scardinare un pò quello stigma che ancora colpisce le persone che vivono con HIV e stimolare riflessioni. Credo sia importante anche semplicemente essere in scena perché, in un mondo che anche ancora immagina le persone sieropositive come emaciate figure in attesa di morire in un letto d'ospedale, il mio corpo, sul palco, davanti a te, ti racconta altro. E poi volevo esserci pure per una questione sentimentale, fare uno spettacolo su questo tema lo riconosco come un infinito privilegio e credo che se lo avessi visto ai tempi del liceo mi avrebbe cambiato la vita, o di certo lo sguardo su molte cose. Per quanto mi considerassi uno che si informava tanto, a molte informazioni fino a poco fa non avevo mai avuto accesso. Ci tengo a recitare perché, nonostante la fatica di tornare in scena dopo quattro anni che non lo faccio, in questo progetto credo molto e il fatto che stia davvero accadendo e sia l'evento di apertura del Roma Pride di quest'anno mi rende molto felice. È un entusiasmo comprensibile e condivisibile. Per quanto ogni giorno si facciano piccoli passi in avanti, reclamare la propria visibilità e investire energie in un progetto del genere non è scontato. Grazie anzi, a nome di tutta la comunità fieropositiva di Brucaliffi, Alici e Stregattə sierocoinvoltə! A proposito di sfruttare potenziali narrativi inespressi, con Angela Infante state lavorando anche ad un altro spettacolo. In che cosa è diverso? Sì, è vero, non solo creare “Un Gioco Virale” è stato possibile grazie ad Angela, ma anche “Frammenti Queer”, il primo spettacolo sul quale stiamo lavorando assieme e che ha deciso di produrre prima di questo. Di “Frammenti Queer” è stata presentata un’anteprima due settimane fa, al Centro Culturale Artemia, e siamo al lavoro sullo spettacolo integrale. Nasce dall’idea di voler trasportare a teatro l’arte del collage, nella quale la stessa Angela si cimenta come artista da anni. Cosa c’è di potente di quel mondo da portare in scena - ci siamo chiesti. E così è nata una storia, anzi due, diversissime e in corsa su binari che non si incontrano mai, se non in pochissimi attimi rivelatori. Il nome stesso anticipa come di queste storie si conosceranno solo frammenti, stralci che utilizzano registri linguistici e stili diversi, che alternano momenti drammatici a vera e propria stand up comedy, e che vivranno sul palco grazie ad una struttura di legno che stiamo costruendo in questi giorni, e che ci permetterà di mettere in evidenza una sola parte del corpo dell’attore per volta. Quando Angela ci ha parlato del collage infatti una delle prime cose che ci è venuta in mente è stato il concetto di dissociazione: attraverso una cabina su ruote e un sistema di pannelli che slittano e scompaiono all’evenienza, in modo da mettere in evidenza di volta in volta solo il busto, o solo un braccio, o solo il volto o le gambe, proveremo a raccontarla anche in scena. Non voglio dire troppo ma diciamo che i protagonist*, Alice e Giulio, si rapportano entrambi a veri e propri processi di dissociazione, non riuscendo a riconoscersi in sé stessi, nei loro corpi, nelle loro stesse storie, che per quanto lontane tra loro si sovrappongono poi in momenti di dolore e violenza. Ci stiamo lavorando ancora un po' sopra e cercando il teatro adatto in cui debuttare con lo spettacolo integrale. In bocca al grifone “Frammenti Queer”! Tornando a “Un Gioco Virale”, un format spettacolo di mezz’ora seguito da uno spazio di dibattito, sembra avere in sé il seme intelligente della replicabilità anche, ad esempio, all’interno del circuito scolastico. È nei piani portarlo nelle scuole, ci penserete? La drammatica assenza dell’educazione alla sessualità e all’affettività nelle scuole ci ha fatto valutare un percorso del genere. In fondo lo spettacolo è pensato per essere accessibile anche a ragazzi e ragazze delle superiori. Lo abbiamo, in effetti, già presentato a diverse scuole, le quali ovviamente ci hanno restituito un problema dal punto di vista della sicurezza Covid che ha rimandato a dopo l’estate ogni valutazione di fattibilità. Però a dirtela tutta Brucaliffo, alcune scuole una risposta definitiva ce l’hanno già data, e apertamente ci hanno detto “di HIV non si può parlare nella nostra scuola”. Ce l’hanno detto proprio così, fuori dai denti. Quindi sì, l’idea c’è, il format era così anche per quello, però sappiamo che in Italia sarà tosta. Ci sono tanti ostacoli culturali e burocratici. Ma troveremo il modo. Speriamo! Un’ultima domanda Danilo: che significato ha per te la visibilità? Perché è ancora così difficile oggi fare coming out sierologico e che ruolo pensi abbia la visibilità nella lotta allo stigma? Secondo me è importantissima. Credo che più si è visibili e più i messaggi che veicoliamo acquistino forza. Lo si vede anche in tante altre situazioni, rispetto ad altre soggettività spesso invisibilizzate: avere l’ultima parola rispetto alla narrazione sulla propria vita amplifica immensamente la propria credibilità, l'autorevolezza, la capacità di comunicare e stimolare empatia e ascolto. L’alternativa d’altronde sarebbe essere raccontati da altri. Certo la visibilità, per quanto sia uno strumento importante, è anche un’arma a doppio taglio. Non la si conquista gratis. Io personalmente la vivo come una responsabilità. Se una persona se la sente, sente che se lo può permettere, il che ovviamente rimanda a valutazioni personali e diverse per ognuno di noi, penso sia giusto fare la propria parte. Per sé stessi e pure per chi magari non ha la stessa serenità o occasione. Forse smuovendo un piccolo tassello da soli il quadro generale non cambia nell’immediato, ma penso che sia giusto partire da qua. Anche un piccolo singolo sasso può essere raccolto da tante persone. E poi, soprattutto nel nostro lavoro, che è il lavoro teatrale, la generosità è tutto. Io devo essere generoso, devo esserlo emotivamente, artisticamente, altrimenti non ha senso fare questo lavoro. UN GIOCO VIRALE (40 anni di HIV) Venerdì 11 e Sabato 12 giugno Tre fasce orarie: ore 19:00 - 19:45 - 20:30 PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA telefonando o scrivendo un SMS o WSP al numero: 3341598407 Ingresso: € 8 Tessera 2021 nuovi soci: € 2 CENTRO CULTURALE ARTEMIA Via Amilcare Cucchini, 38 Roma (zona Monteverde – Portuense/Forlanini) Intervista a cura del Brucaliffo
Sinnombre Teatro FB: @Sinnombreteatro.ita IG: @Sin.nombreteatro https://www.twitch.tv/sinnombreteatro "LA veritÁ GUARISCE." La traduzione integrale dell'intervista di billy porter a "The hollywood reporter"Per la prima volta da quando ha ricevuto la diagnosi di sieropositività, oltre dieci anni fa, la star di ‘Pose' parla dello stigma e della vergogna che lo hanno spinto a nascondere la sua condizione ai compagni di cast, ai suoi collaboratori e persino alla madre. Oggi è il senso di responsabilità che lo fa parlare: "La verità guarisce.” Billy Porter prende un lungo e profondo respiro. “Devo iniziare dal 2007” dice, dopo essersi sistemato dall'altra parte del tavolo. È qui a Little Owl, nel West Village, per togliersi un peso dal petto - qualcosa che è stato avvolto nel segreto così a lungo che riesce a malapena a ricordare la sua vita di prima. "Nel giugno di quell’anno” continua mentre l'artista che è in lui cerca di dissimulare l’emozione "Mi è stato diagnosticato l'hiv". Nei 14 anni successivi, la star di Pose vincitore di un Emmy, non ha detto niente a nessuno, temendo l'emarginazione e le ritorsioni in un settore che con lui non è sempre stato gentile. L’attore 51enne, che negli ultimi anni ha coltivato una nutrita base di fan grazie al suo talento e alla sua genuinità, afferma di aver utilizzato Pray Tell, il suo personaggio sieropositivo nella serie FX, come un suo alter-ego. "Sono stato in grado di dire tutto quello che volevo dire attraverso il mio personaggio” rivela, spiegando come nessuna persona coinvolta nello spettacolo avesse idea di quanto lui stesse attingendo dalla propria biografia. Adesso che la serie, un dramma ambientato sullo sfondo della crisi dell’AIDS vincitore del Peabody Award, si appresta alla conclusione con la terza e ultima stagione, Porter si prepara per quel che verrà. C'è un libro di memorie di cui è prevista l’uscita per la fine dell’anno, e rispetto a cui l’ansia delle deadlines in scadenza lo tormentano; un documentario Netflix sulla sua vita, che lo manterrà in collaborazione proprio con il co-creatore di Pose, Ryan Murphy; una versione 2021 di Cenerentola, in cui Billy interpreterà la fata madrina; un debutto alla regia; un nuovo progetto musicale; e molto altro ancora. L'attore formatosi a Broadway, che è un premio Oscar a cui ormai solo manca un EGOT, non ha interesse ad entrare nella fase successiva della sua vita e della sua carriera portandosi dietro lo stigma che lo insegue da più di un decennio. Quindi, con Murphy al suo fianco e di fronte a uno stormo di telecamere, Porter racconta la sua storia. Questa è la traduzione integrale della sua intervista per The Hollywood Reporter. Essendo sopravvissuto alla cosiddetta “peste”, la mia domanda era sempre: "Perché sono stato risparmiato? Perché sono vivo?" Bene, ora io so di essere qui per poterla raccontare quella storia. C'è un'intera generazione che è stata dove sono io oggi e sento sulle mie spalle una responsabilità. Posso essere chi sono, qui e ora, solo grazie all'eredità che mi hanno lasciato. Quindi per me adesso era ora di agire da adulto e parlare. Appartengo a una generazione che avrebbe dovuto saperne di più di sessualità consapevole, ma è successo comunque. Era il 2007, l'anno peggiore della mia vita. Sono stato sull'orlo del baratro per circa un decennio o giù di lì, ma il 2007 è stato senza dubbio il peggiore. A febbraio mi era stato diagnosticato il diabete di tipo 2. A marzo ho firmato documenti che sancivano la mia bancarotta. E a giugno mi fu consegnata una diagnosi di sieropositività. La vergogna di quell’ultima notizia, unita alle altre vergogne che si erano già accumulate nella mia vita, mi ha zittito, e ho vissuto con vergogna e in silenzio per 14 anni . Essere sieropositivi, da dove vengo io, essendo cresciuto in una chiesa pentecostale e da una famiglia molto religiosa, era ancora la “punizione di Dio” contro gli omosessuali. Nel 2007, tutto è crollato. L’ho scoperto praticamente per caso. Avevo un brufolo sul sedere, che diventava sempre più grande e duro, e che poi ha iniziato a farmi male. Un giorno ho pensato: "Devo sistemare questa faccenda” e sono andato alla clinica Callen-Lorde e alla reception mi chiesero: “Vogliamo fare anche un test dell’hiv già che ci siamo? Costa solo 10 dollari" Ho risposto: "Sì. È ora." Facevo il test ogni sei mesi, così come dovrebbe fare chiunque. Così sono entrato, ho drenato quell’insolito brufolo e fatto il test, poi il dottore è tornato e mi ha guardato. Ho risposto “Cosa?!?” Si è seduto e ho pensato: "No. Nooo." E lui ha detto: "Il tuo test è risultato positivo". SBAM. Per molto tempo, lo dissi solo a chi doveva sapere, eccetto mia madre. Stavo cercando di farmi una vita e una carriera, e non ero sicuro di poterlo fare se le persone sbagliate avessero saputo. Sarebbe stata l’ennesima scusa per discriminarmi in una professione già di per sé molto discriminatoria. Quindi ho cercato di pensarci il meno possibile. Ho provato a negare a me stesso prima che agli altri. Ma la quarantena mi ha insegnato molto. Tutti prima o poi dobbiamo sederci, chiudere sta cazzo di bocca, e ascoltarci davvero. Mio marito e io abbiamo affittato una casa a Long Island, perché avendo un'altra condizione preesistente non potevo correre rischi covid in zone troppo densamente popolate. Dovevo proteggermi, e fortunatamente avevo i mezzi per farlo. Non mi ero mai concesso il lusso di pensare davvero alla cura di me stesso o a cosa vuol dire raggiungere un equilibrio interiore. Pensavo sempre e solo ad andare avanti io. Il covid ha creato paradossalmente uno spazio sicuro per me, uno spazio in cui fermarmi, riflettere e affrontare i diversi traumi della mia vita. Faccio terapia da molto tempo. Ho iniziato l’analisi quando avevo 25 anni e la interrompo e poi riprendo da una vita. Nell'ultimo anno ho iniziato una nuova terapia traumatologica ed è cominciato in me un vero e proprio processo di guarigione. Ho iniziato a staccare i vari strati: quello di quando fui mandato da uno psicologo all'età di soli 5 anni perché i miei modi venivano considerati troppo "effemminati"; quello degli abusi sessuali subiti dal mio patrigno, dai 7 fino ai 12 anni; quello di fare a coming out a 16anni, proprio nel bel mezzo della crisi dell’AIDS. In pratica non c'era mai stato un’epoca della mia vita in cui non avessi subito “traumi”, ma io questa verità l’ho realizzata solo l'anno scorso. Ed ho scoperto anche che è stato quello il mio motore invisibile per molto tempo. I miei traumi mi sono serviti, la mia storia mi è servita come propulsione per andare avanti. E come artista sono grato di aver avuto l'opportunità di lavorare su tutti i miei casini. Quando ho ottenuto la parte in Kinky Boots, la traiettoria principale del mio personaggio, Lola, era quella di perdonare suo padre ad esempio. Ebbi il privilegio di praticare il perdono all’interno di un racconto, otto volte alla settimana per tre anni - otto volte alla settimana permettevo a me stesso di perdonare mio padre sul palco e entrambi i miei padri (e patrigni) sotto terra. Ogni giorno era una piccola liberazione in più. E poi è arrivata Pose. L'opportunità per superare la vergogna dell’hiv e per arrivare dove sono ora. E la genialità di Pray Tell e di questa opportunità unica, è stata proprio quella di permettermi di dire tutto quello che davvero sentivo attraverso il mio alter ego. I miei meccanismi di dissociazione però sono molto, molto forti, quindi mentre lo facevo non avevo idea di essere tanto traumatizzato o di essere stato appena innescato. Sinceramente ero solo felice che qualcuno finalmente mi stesse prendendo sul serio come attore. Sono sopravvissuto per poter raccontare questa storia, La Storia. È per questo che sono qui. Io prima ero un’isola, ed emotivamente è stato sufficiente, fino al giorno in cui non è stato più così. Fino a quando mi sono sposato nel 2017. Ora sto cercando di avere una famiglia, e non sono più soltanto io. È tempo di evolvere e andare avanti perché la vergogna è distruttiva e, se non affrontata, sul suo cammino può corrompere ogni cosa. E la mia di vergogna era, come spesso accade, collegata alla mia relazione con mia madre e alla mia ex-relazione con la Chiesa. Mia madre aveva già passato così tante cose, così tante persecuzioni da parte della sua comunità religiosa a causa della mia omosessualità, che non volevo che lei dovesse vivere con i loro "Te l'avevo detto che lui finiva così". Non volevo farle passare quello. Ero imbarazzato. Mi vergognavo. Ero la statistica che tutti promettevano sarei stato. Quindi semplicemente avevo giurato a me stesso che l'avrei lasciata morire prima di dirglielo. Questo è quello che stavo aspettando, se devo essere completamente onesto. Quando l'abbiamo trasferita alla Actors Fund Nursing Home, ho pensato: “Mamma non resterà tra noi a lungo, quando non ci sarà più poi lo scriverò il mio libro, farò coming out sierologico ma lei non dovrà convivere con l'imbarazzo di avere un figlio sieropositivo." Questo succedeva cinque anni fa. E mamma è ancora lì, è ancora con noi, e non sta andando proprio da nessuna parte. Per questo con mia sorella recentemente avevamo elaborato un piano. Stavamo per farci vaccinare e per andare a trovare mamma. Avremmo preso una stanza e io, finalmente, gli avrei dato la notizia. Poi invece, l’ultimo giorno delle riprese di Pose, stavo scrivendo appena sveglio il mio diario della gratitudine, e mi è venuta in mente mia madre. Ho pensato: “Fammela chiamare.” Dopo due minuti dall'inizio della conversazione, lei è era già "Cosa c’hai che non va?”. Ma io non dicevo nulla. Lei ha insistito: "Billy, per favore, dimmi cosa c'è che non va". Così ho strappato via il cerotto e gliel'ho detto. Mi ha risposto: “E ti porti dietro tutto questo da 14 anni? Non farlo mai più. Io sono tua madre, e ti amerò sempre, qualunque cosa accada. E so di non aver capito come farlo all'inizio, ma sono passati decenni Billy". Ed è tutto vero. È la mia stessa vergogna. Anni di traumi sanno rendere un essere umano molto insicuro. Ma è la verità che rende liberi. E io sento che il mio cuore ora si sta liberando. Per anni - anni e anni - era come se una mano mi stringesse costantemente il cuore, e adesso quella mano ha lasciato la presa improvvisamente, se ne è andata. E non sarebbe potuto accadere in un momento migliore. Ogni singolo sogno abbia mai avuto si sta avverando in questo preciso momento, tutti allo stesso tempo. Mi sto preparando per interpretare la fata madrina di Cenerentola. Ho della nuova musica in uscita. Ho un libro di memorie in uscita. È uscita la stagione finale di Pose. Dirigerò il mio primo film. E sto solo cercando di essere presente a me stesso. Sto cercando di essere gioioso e uno degli effetti del trauma irrisolto è proprio quello di non essere in grado di provare gioia. Ryan nella prima stagione mi ha letto dentro. Venni convocato da Freds in Wilshire Boulevard, si sedette e mi disse: "Avrò bisogno che tu ti aggrappi di più alla gioia". Wow. Di solito nessuno può notarlo! Sono molto abile a nascondere quel lato della mia lotta interiore eppure Ryan se ne accorse subito. Poi avemmo questa meravigliosa conversazione sui lavori che avevo fatto nella vita e su come questo fosse il mio momento - il momento per me di sedere finalmente sul trono del protagonista. E avevo avuto così tanti "quasi" prima di Pose. Ricordo di aver visto “Angels in America” per la prima volta nel 1994 e aver pensato: "C'è un uomo queer nero che non è solo un personaggio secondario - è il cuore della fottuta storia! Questo è l'essere umano che sono. Questo è l'artista che sono! Come ci arrivo?" Nel frattempo stavo in seconda fila a fare Grease con 40cm di parrucchino di gomma arancione in testa, saltellando come un Little Richard pupazzo sotto crack. E non era certo quello che volevo. Non è per questo che sono venuto qui oggi pensavo. E adesso che Ryan aveva bisogno che mi appoggiassi alla gioia, io non potevo. Non sapevo come. La felicità c'è, sì; c'è la gioia in superficie, ma c'era anche sempre una sensazione di paura, tutto il giorno, ogni giorno. Non era la paura che il mio status sarebbe saltato fuori o che qualcuno mi avrebbe "smascherato"; era proprio, in primo luogo, la vergogna che fosse successo. E come persona nera, anzi in particolare come uomo nero, su questo pianeta devi essere sempre perfetto o qualcuno ti ucciderà. Eppure guardami ora. Sì, sono la statistica, ma l'ho trascesa. Ecco che aspetto ha l’hiv oggi. Morirò, ma per qualcos'altro non per quello. I miei livelli di linfociti T sono il doppio dei tuoi a causa dei farmaci che assumo sai? Vado dal dottore adesso - come uomo nero, di 51 anni, vado da un dottore ogni tre o massimo sei mesi. E questo non accade nella mia comunità. Ma io dal dottore ci vado, e ora so sempre cosa sta succedendo nel mio corpo. Sono più sano di quanto lo sia stato in tutta la mia vita. Quindi è davvero il momento di voltare pagina e raccontare una storia diversa. Basta stigma - finiamola! È tempo. L'ho vissuto e me ne sono vergognato abbastanza. E sono sicuro pure che mi seguirà ancora. Sono certo che la prima cosa che molti diranno sarà: “ah vedi è sieropositivo, omosessuale, blah, blah, blah". OK. E allora? Non è l'unica cosa che sono. Sono molto di più di quella diagnosi. E se non vuoi lavorare con me a causa del mio status, allora sei tu a non essere degno di me. Così più o meno dissi a mia madre quella mattina, e poi sono venni a lavorare in questa brillante opera d’arte che è Pose, che alla fine è stata il catalizzatore per liberarmi dalla vergogna, e ho pensato: "Abbiamo affrontato tutto questo insieme e queste persone meritano di sapere, proprio come mia madre meritava di sapere." Una delle realizzazioni più profonde che ho avuto da uomo di 51 anni che finalmente sta ottenendo il suo riconoscimento, o vive il suo momento-chiamalo-come-ti-pare, è che ho avuto un sacco di tempo per sedermi e osservare tutte quelle stelle che mi hanno preceduto e si sono spente troppo presto. Ho avuto molto tempo per indagare sul perché proprio; e la risposta che ho trovato mi ha sempre riportato al valore dell’autenticità. Quindi mi sono alzato, davanti a tutto il cast, alla troupe e a tutte le persone che hanno contribuito a creare questo spazio unico e speciale, e ho detto loro la verità perché, a un certo punto, la verità è una responsabilità. La verità è guarigione. E spero che questo mi liberi. Spero che questo mi liberi al punto da poter riprovare quella gioia vera e genuina, in modo da poter sperimentare la pace, in modo da poter sperimentare l'intimità, in modo da poter fare sesso senza più alcuna vergogna. Questo coming out è prima di tutto per me. Lo sto facendo per me. Ho troppe cose da fare e non ne ho più paura. L'ho detto a mia madre: era quello l’ostacolo più grande per me. Quello che ha da dire chiunque altro non mi interessa. E se stai con me, bene. Altrimenti, togliti di mezzo. Intervista di Lacey Rose per The Hollywood Reporter tradotta in italiano dai Conigli Bianchi i consigli di prepster & hornet illustrati da joseph kaI La raccomandazione che ci è stata fatta più spesso in questi mesi di pandemia è stata quella di far sesso con partner regolari oppure astenersi completamente. Non per tutt* però l’astinenza sessuale è qualcosa di fattibile o sostenibile. Abbiamo chiesto ai mitici @Prepster di poter condividere con voi la traduzione dei consigli su Sesso & Covid che hanno pensato assieme a @Hornet, e illustrati dalle matite sierocoinvolte di @Joseph Kai. Questi consigli aiutano a prendere decisioni migliori per noi stess* e per le persone con cui facciamo sesso, riducendo quanto possibile i rischi legati al Covid19. ** Le informazioni sul COVID e la sua trasmissione aumentano man mano che impariamo a conoscere il virus e le sue varianti, è perciò importante tenersi al passo con i nuovi sviluppi, attenendosi a fonti di informazione affidabili e comprovate. ** SESSO VIRTUALEAl momento uno dei modi più sicuri per far sesso è evitando i contatti fisici : il sesso telefonico, via webcam e il sexting (l’invio di messaggi espliciti) sono ad esempio tutte pratiche sicure contro il virus! Se fai sesso telefonico o via webcam, oppure se scambi foto hard, fai attenzione però alla tua sicurezza personale perché l'altra persona potrebbe registrarti a tua insaputa. Cerca di tenere nascosta la faccia oppure utilizza la webcam su uno sfondo neutro. Ricorda: a prescindere dal COVID, le regole sul consenso non cambiano - filmare o fotografare qualcun* senza il loro consenso è, oltre a essere illegale, una forma di violenza. INDOSSA UNA MASCHERINA, ECC.Le precauzioni generali che contribuiscono a ridurre i rischi da Covid ormai le conosciamo tuttə: indossare mascherine nei luoghi pubblici o quando siamo con altre persone; lavarsi accuratamente le mani; coprirsi naso e bocca quando tossiamo o starnutiamo; mantenere una distanza di sicurezza dagli altri evitando i luoghi affollati. Il Corona Virus si può quindi trasmettere con il contatto ravvicinato tra persone durante il sesso, anche se il virus, di per sé, non è a trasmissione sessuale. Non esistono infatti prove che confermino la trasmissione attraverso liquido pre-spermatico, sperma, liquidi vaginali o rettali, o attraverso il rimming. NIENTE SESSO SE NON Stai AL TOPSe tu o l’eventuale partner non vi sentite bene, evitate di far sesso e restate a casa. Febbre alta, una tosse comparsa di recente o la perdita di gusto e olfatto sono tutti sintomi comuni del Covid, perciò il consiglio precauzionale è sempre quello di restare a casa. Certo, dover rinunciare a un incontro hot è una bella fregatura, ma evitare di far sesso quando non si sta bene o anche semplicemente dopo aver avuto contatti recenti con persone positive o con sintomi da Covid, aiuterà a fermare la diffusione del virus. RESTA IN FORMA, STAI AL PEZZOQuesto non è il momento di abbandonare le buone prassi di cura di sé legate alla prevenzione, tanto dell’Hiv quanto delle altre infezioni a trasmissione sessuale (IST). Tra queste, in primis, fare i controlli di routine in ambulatorio o presso le associazioni e riprendere con la PrEP se la si stava facendo. Sottoporsi regolarmente ai test per le IST consente infatti di diagnosticare e trattare queste infezioni in maniera precoce. La pandemia e minori contatti che abbiamo con le altre persone stanno offrendo in termini epidemiologi un vantaggio senza precedenti sull’Hiv e la sua diffusione. Sfruttiamolo! Facciamo il test come non mai. Come per la prevenzione dell’Hiv e delle altre IST, anche per le strategie di riduzione del rischio Covid le decisioni spettano ovviamente al singolo individuo. Quando si parla di salute sessuale abbiamo imparato che è controproducente stigmatizzare e giudicare le altre/gli altri, mentre riuscire a discutere apertamente e in maniera solidale delle opzioni di prevenzione disponibili, fa la differenza. L’incertezza fa paura, ma la conoscenza è potere! TROMBAMICO/A? SÌ, GRAZIE! Durante il lockdown, c’è chi ha deciso di ridurre il rischio da Covid facendo sesso con partner regolari, ovvero scegliendo di far sesso con una sola persona per un determinato periodo di tempo. Non dev’essere la stessa persona per tutti i mesi successivi, ma potresti decidere di avere partner divers* a rotazione mensile! In questo caso, è importante che stabiliate delle regole chiare circa le vostre aspettative e su come comportarvi se vi ritrovate a non rispettare le regole. MENO INCONTRI, MENO RISCHIPiù persone frequenti a stretto contatto, maggiori saranno le probabilità di esporti al Covid. Se hai continuato ad avere rapporti sessuali in questo anno, puoi comunque ridurre il rischio di contagio cercando di limitare il numero di incontri. DAI SFOGO ALLA FANTASIA!Puoi ridurre il rischio di esposizione al Covid limitando il contatto fisico quando fai sesso, ad esempio, indossando una mascherina o altri tipi di maschera aprendoti al “kinky”, oppure tenendovi a distanza. Potreste anche utilizzare un “glory hole” (un buco creato in una porta o in una tenda impermeabile) o far sesso senza contatto fisico, ad esempio guardandovi mentre vi masturbate. Sì. Anche quello è sesso. SESSO ALL’APERTO In ambienti molto affollati con scarsa ventilazione, ci sono più probabilità di esposizione alla Covid. Il concetto ormai ci è chiaro. Per ridurre il rischio di contagio, evita gli affollamenti o le orge, e decidi di far sesso in luoghi ben ventilati, ad esempio approfittando della bella stagione per far sesso su terrazze, boschi o parchi. NON TI ABBATTERE Ricercare il piacere e l’intimità durante la pandemia è un ottimo modo per prendersi cura di sé. Le nostre comunità hanno affrontato altre pandemie: rimanendo unitə, supereremo anche questa. Non c'è niente di nuovo nel trovare modi per ridurre i rischi durante il sesso: basta condividere le informazioni, tenersi aggiornati e comunicare. La prevenzione è uno spettro con molte sfumature, non un interruttore. Non per niente sono anni che non si parla più di “sesso safe” ma bensì di “safer sex”: questo perché i gradini su cui posizionarsi sono tanti e sta a ciascun* di noi scegliere e negoziare con il/la partner quello che ci fa sentire più comod*. Quello che ci ha insegnato il Covid in questi mesi, moltə di noi lo avevamo già imparato con l’HIV: le scelte di prevenzione sono sempre una negoziazione. Non serve puntare il dito ed evocare "la colpa", ma al contrario rivendicarsi la responsabilità di scelte libere, rispettose di se stess* e degli altru, e in poche parole, sieroconsapevoli. Martedì 23 febbraio h:18:30, sei attes@ e benvenut* al primo incontro 2021 dei Conigli Bianchi - Artivist* contro la sierofobia.
Per smantellare 40 anni di stigma, riportare l’attenzione sui servizi per le persone che vivono con HIV e denunciare l’avidità di chi lucra oggi sul Covid come già fa da anni su HIV & AIDS, dobbiamo organizzarci. ANNIVERSARI VIRALI Quest’anno l’anniversario di 4decenni di epidemia HIV cade nel pieno di una nuova pandemia. E seppure la ricerca sul vaccino di un virus abbia accellerato anche quella sull’altro, la sensazione è che la storia non stia insegnando quanto può e di essere sovrastat* dalla velocità degli eventi. Non possiamo permettercerlo. Non se lo può permettere il nostro sistema sanitario nazionale, i reparti di infettivologia come quelli di oncologia, non se lo possono permettere le persone in attesa di un vaccino pagato da finanziamenti pubblici ma subalterno a logiche di profitto incompatibili con la salute pubblica e contrarie all’interesse comune, non se lo può permettere la lotta all’HIV che in termini di diagnosi, prevenzione e servizi quest’anno ha subito gravissime battute d’arresto. LA STORIA INSEGNA Quarant’anni di epidemia HIV ci consegnano una storia preziosa, culturalmente ma sopratutto politicamente. Se non sappiamo da dove veniamo, come possiamo decidere dove andare? Secondo questo principio banale abbiamo deciso come attiviste HIV di concederci lo spazio e il tempo per approfondire la storia del movimento, le sue vittorie e le sue sconfitte, le continuità e le discontinuità con l’oggi, nella convinzione che possa illuminarci sui passi da compiere domani. Martedì pomeriggio vorrebbe essere il primo di un ciclo di incontri mensili, per regalarci e invitarvi tutt* a un momento di autoformazione sierocoinvolta. TI ASPETTIAMO Nell’epoca delle dirette social e della comunicazione verticale dell’io, ci sembrava più salubre costruire uno spazio orizzontale e in grado di dare voce a un noi: per questo l’incontro sarà privato e non sarà registrato per l’online. Ti aspettiamo se semplicemente ti interessa e incuriosisce approfondire l’argomento e la storia del movimento HIV, se sei un’artista che pensava di collaborare con noi coniglie a flashmob - azioni dirette - mostre collettive future, se sei un attivista con la voglia di creare un pò di fomento fieropositivo, ma sopratutto se non lo sei e non ti sei mai considerat* tale. Ti aspettiamo se ti senti, come in effetti lo siamo tutt* (a prescindere dallo stato sierologico o i nostri affetti) sierocoinvolt@. DOVE/COME Per partecipare basta registrarsi a questo link: forms.gle/3dGCHeXY5ScJqSHh7 #ConigliBianchi #CeraUnaRivolta #AutoformazioneSierocoinvolta E’ stato un anno difficile e non smette di esserlo. Sentir parlare ogni giorno di test sierologici, infettivologia e della ricerca di cure e vaccini, ha suonato surreale a tante persone, ma forse ancora di più a chi quelle parole le frequenta abitualmente da anni.
Noi Coniglie Bianche ci siamo un pò ritratte, quasi come se i nostri contenuti non si sposassero al momento storico che stavamo vivendo. Abbiamo ascoltato però, ci siamo prese cura di noi stesse, abbiamo supportato crowdfunding della sorellanza queer e sexworker in difficoltà, sostenuto battaglie che sentiamo vicine come #BlackLivesMatter o #PantelleriaVuoleNascere, abbiamo anche scritto in realtà ( e i nostri pensieri pandemici convoglieranno tra pochi giorni nella rubrica “In Virus Veritas” ), insomma: c’abbiamo provato a non ricordarvi che di virus ne girano altri oltre al Covid. Ma con oggi finisce qua. Come recita lo slogan più famoso della storia dell’attivismo HIV, SILENCE = DEATH, il silenzio è morte. E infatti in questo silenzio nel frattempo i test HIV eseguiti negli ultimi mesi sono diminuiti di oltre il 60% (pure se in altri paesi è stato implementato al grido di testiamoci tutt* ora o mai più), le persone che convivono con condizioni croniche hanno faticato ad accedere a farmaci e visite di screening, e le persone più vulnerabili hanno pagato, come sempre succede, il prezzo più alto della crisi. Se a questo si aggiunge come tanta narrazione mainstream abbia riabilitato il termine “untore”, o come si è riusciti a criminalizzare e stigmatizzare di volta in volta intere categorie sociali, si capisce quanto dalla storia dell’HIV e dagli errori del passato non si sia imparato nulla. C’è ben poco da stare in silenzio. Per questo, oggi 1° Dicembre, giornata mondiale dell’HIV e della lotta all’AIDS, promuoviamo con emozione il flashmob #HIVisible-2gether, proposto dalla bianconiglissima Paula Lovely, l’artivista Teresa Fabiao e il collettivo portoghese Viral, e volato da Lisbona sino alle piazze di Roma, Bologna e Londra. Plus, Plus Roma, il Laboratorio Smaschieramenti, il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, Liberare Roma, e con qualche ora di distacco ACT UP London, Positively UK, Muslim LGBT Network e tante persone HIV+ o semplicemente sierocoinvolte, oggi e nelle prossime ore scenderanno in piazza, fisicamente distanziat* ma esplosive di #fieropositività, per ricordare che le persone che vivono con HIV esistono, hanno corpi, desideri e volti. Sarà un modo per restituire dignità e voce alle persone con HIV, un atto di denuncia verso quelle scelte politiche miopi che hanno relegato il mondo dell’HIV nei reparti di malattie infettive, escludendo così oggi migliaia di persone dall’accesso a servizi vitali, ma sarà anche un’occasione, per chiunque ne abbia voglia, di celebrare un collettivo coming out sierologico. "Non ci sarà campagna che ci tolga di dosso lo stigma, se continuiamo a farci raccontare da altri. Mostriamoci, raccontiamoci, siamo visibili.” Come abbiamo detto tante volte, sieroqualcosa lo siamo tutt*, quindi ovviamente, anche se il focus dell’azione di oggi parla di visibilità fieropositiva e contrasto alla sierofobia, tutt* sono invitat* a partecipare a prescindere dal proprio stato sierologico. Per trasformare l’immaginario collettivo, oggi più che mai, abbiamo bisogno della forza e la visibilità di un'intera comunità. E un pezzo alla volta, le cose le stiamo cambiando. Daje! Invisibili sono i virus, non noi. #HIVisibile - - - - - - - - Link all'azione di BOLOGNA > https://fb.me/e/3G7YssOYH Link all'azione di ROMA > https://fb.me/e/AkRRsIeT Link all'azione di LISBONA > https://fb.me/e/3Ei5kqNbY Link all'azione di LONDRA > https://fb.me/e/1KNhbftag |
Conigli bianchiFuori dalla tana, cercando di capire cos'è un blog. archivio
November 2022
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