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il blog del bianconiglio

Decolonizzarsi il cervello: due conigli ‘obruni’* in Ghana

3/29/2019

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Da poche ore siamo rientrati a casa. Dopo aver dissimulato per quattro settimane la nostra inguaribile** omosessualità nelle strade di Accra siamo tornati a Lisbona, luogo dove scambiarsi effusioni in pubblico non si traduce in 25 anni di carcere o in un linciaggio.

**[primo asterisco veronese:‘felicemente inguaribile’. Chiunque sostenga le teorie riparative è un criminale.]

È stato un mese di epifanie continue, sicuramente per me che mettevo piede nel continente per la prima volta, ma anche per Riccardo, che in Ghana per studio o lavoro ci va quasi ogni mese. Troppi gli shock culturali per raccontarli tutti, ma il filo rosso che li lega, per quanto è un pò la scoperta dell’acqua calda, mi fa piacere raccontarlo e condividerlo: in questi pochi giorni ho potuto ridefinire come mai prima la misura del mio infinito privilegio. 

​Tra le tante esperienze non facilmente dimenticabili si erge su tutte la visita ai primi forti coloniali dell’Africa Subsahariana, per esser più precisi il forte di 
Elmina e quello di Cape Coast. Questi sono i luoghi in cui inglesi, olandesi e portoghesi iniziarono nel 1482 quelle prime truffe che la storia definisce curiosamente ‘scambi commerciali’, e gli stessi luoghi dove, una manciata di decadi dopo, si cominciarono a commerciare persone.
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Entrando nei sotterranei dove venivano imprigionate migliaia di donne e uomini la guida fa notare che oggi non si cammina sui mattoni originali ma bensì su 10 centimetri di sedimento. Letteralmente due secoli di sangue, feci, vomito e brandelli di carne. Da lì è cominciata una visita terrificante alle quale ero arrivato poco preparato.

Respirare a fatica nelle caldissime celle di isolamento dove si lasciava morire di fame e sete chi osava ribellarsi. Sostare sotto al sole nei piazzali in cui gli ufficiali selezionavano le donne da stuprare, toccare i muri delle stanze in cui venivano lavate e salire nelle camere dove venivano portate. Affacciarsi dalla ‘Porta del Non Ritorno’, un pertugio nel muro dal quale si accedeva alle navi, impossibile da attraversare per la quasi totalità dei visitatori tanto era stretto. Scoprire quanto le gravidanze fossero frequenti e tragiche, e come i neonati venissero sistematicamente sottratti alle madri, o peggio, se identificate come incinte durante il viaggio, le donne venissero direttamente gettate a mare. 
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Quando la guida racconta l’abolizione della schiavitù e la fine della tratta, la visita è finita. È un momento di palpabile sollievo. Ma, osservando con attenzione, mi sembra esserlo più per chi ha la pelle bianca. La reazione dei tanti afro-americani che hanno attraversato l’oceano appositamente per visitare quei luoghi, e che non sono finiti lì casualmente come me e altri, mi è parsa glaciale. Non che l’esperienza non fosse stata innegabilmente disturbante per chiunque, ma qualcosa nell’energia, nel livello di attenzione, nella postura, mi sembrava diverso. Oppure, più probabilmente, tanta colpa e tanta vergogna come in quel momento non le avevo mai provate.

Usciti dai due forti ci ritroviamo immersi in un villaggio di pescatori che tanti di noi definirebbero una favela, ma che per migliaia di persone è il luogo dove tra gioie e difficoltà si cresce: è casa. 

Solo da qui pare che la tratta degli schiavi abbia deportato dai 12 ai 20 milioni di persone. Ti inizi a domandare anche quante ricchezze siano salpate da quel porto in 500 anni. E mentre cerco sul mio Iphone dati a riguardo, non posso fare a meno di pensare a quanto il mio benessere nasca da secoli di schiavismo, razzie, torture e stupri.

“Contestualizzare storicamente” non giustifica nulla di quello che ho visto. Chi si indigna per della simbolica vernice su Montanelli sappia che “contestualizzare” non migliora il quadro, ma al contrario, lo peggiora. E per quanto la complessità della storia non sia mai riducibile ad un unicum coerente, ed esistano testimonianze di amori clandestini, la regola del colonialismo rimane l’orrore.

“Invito chi è qui oggi a porsi una domanda” ha chiuso la guida “possiamo dire che la schiavitù sia davvero finita?”. Fin troppa gentilezza nel porre una domanda così retorica. Eppure quanta fatica si fa a decolonizzarsi il cervello. È un pò lo stesso esercizio faticoso e costante che richiede il femminismo: mettere in discussione quanto si è appreso in una vita, il nostro stesso sguardo sulle cose e il linguaggio che scegliamo per parlarne. 
Da oggi il “Congresso delle Famiglie” giocherà molto con le parole (e con le nostre vite), nascondendosi dietro famiglia, amore e vita, quando in realtà sta organizzando la mera difesa del proprio potere e del proprio privilegio. Il privilegio di essere maschi, il privilegio di essere eterosessuali cis-gender e il secolare privilegio di essere bianchi.

Per questo in tante e tanti saremo in piazza per far vivere la Verona dell’autoderminazione. E già li sento i commentatori immancabili, rimproverare il movimento della qualunque: sostenendo che parlare di famiglie è comunque fare il gioco loro, che parlare apertamente di sesso e libertà è controproducente, che trasformarlo in un Pride è fuoriluogo, che usare vernici lavabili o fare disobbedienza civile non violenta è un autogol, che nominare troppo certi partecipanti non serve a niente se non a dargli la visibilità. Insomma come la fai la fai, la sbagli. 

E invece è proprio il contrario. L’unico modo per non sbagliare è esserci. Perché il passaggio successivo allo svelamento del privilegio è fare qualcosa al riguardo.

29.03.2019
​Luca 

*Obrooni in Akan significa straniero, letteralmente tradotto come “coloro che vengono dall’altro lato dell’orizzonte”. È tradotto informalmente come bianco, “bianchi”.
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